Le ferite di Conte nel ricordo di Morosini

Antonio Conte è tornato sulla panchina della Juventus dopo aver scontato quattro mesi di squalifica, mentre a Vicenza un giocatore viene ammonito per aver ricordato Piermario Morosini
Sport

9 dicembre 2012: una data che Antonio Conte, 43 anni da Lecce, ricorderà per sempre. L’allenatore della Juventus ritorna, risorge, scende in campo. Dopo quattro mesi, il tecnico bianconero siede di nuovo lì, in panchina, ad occupare il posto che gli spetta, dopo essere stato “sfrattato” dalla sentenza della Corte di giustizia federale della Federazione italiana giuoco calcio. Squalifica di dieci mesi, aveva sentenziato il giudice il 10 agosto, a causa dell’omessa denuncia della combine riguardo la partita Albinoleffe-Siena disputata il 29 maggio 2011, quando la squadra toscana militava ancora in serie B. Poi il ricorso, al Tribunale nazionale di arbitrato per lo sport e la riduzione della pena a quattro mesi. Ieri, il calendario della "A” prevedeva Palermo-Juventus, per la cronaca, vittoria finale dei bianconeri per uno a zero, a decidere un goal di Lichtsteiner.

Lui, Antonio Conte da Lecce, segni particolari allenatore della Juventus, è uscito ieri dal tunnel degli spogliatoi, cancellando il buio della squalifica e il grigiore delle partite in diretta, vissute da ospite illustre ai margini degli stadi italiani, quasi fosse seduto sull’ultimo banco di scuola in fondo a sinistra. In questi mesi, la solita grinta, le solite smorfie, il solito disappunto per gli sbagli dei suoi giocatori. Dietro al vetro in plexiglas delle tribune, retro lavagna di punizione, Conte era sempre lo stesso, ancora più celebre, ora volto conosciuto anche ai non calciofili, grazie a quelle oramai storiche parole “paura” e “patteggiamo”, pronunciate insistentemente dal comico Maurizio Crozza durante le travolgenti imitazioni del tecnico leccese. «Quando ti viene a mancare il profumo dell’erba è un dolore», sono state le prime parole nel post partita del tecnico juventino.

Quel profumo è lo stesso che il 14 aprile 2012, durante Pescara-Livorno, ha rapito per sempre l’allora difensore del Livorno Piermario Morosini. Il dolore però un altro. Sabato scorso a Vicenza, il destino ha voluto che a sfidarsi fossero due ex squadre di Piermario: Vicenza e Livorno, paradossalmente divise dalle tendenze politiche delle tifoserie, quanto unite nel ricordo di un ragazzo andatosene troppo presto. È stata una partita avvincente e spettacolare, sei goal, tre per parte con il Livorno che ha acciuffato il pari al '29 del secondo tempo. A segnare è stato l’attaccante Paulo Sergio Paulinho. Una breve rincorsa di gioia, poi il brasiliano si è fermato e ha alzato la maglia dietro la nuca per mostrare la t-shirt con il volto del compagno scomparso e la scritta “Ciao Moro”. Gli occhi al cielo e il segno della croce, timbro del ricordo. Un’esultanza sacra, vera, che collega l’erba al cielo e l’arbitro al regolamento: Paulinho viene ammonito perché ai giocatori non è consentito esultare togliendosi la maglia. Poche scuse, bocca chiusa, palla lunga e pedalare.

In un momento in cui chi dirige i giochi, nello sport così come nella politica, gode di una sfiducia oramai costante, viene da chiedersi se quell’arbitro non avesse fatto meglio ad “infischiarsene” per una volta del regolamento, trattenendo il cartellino giallo nel taschino. «Quando ti viene a mancare il profumo dell’erba è un dolore», per un uomo, per un calciatore. E il dolore come il ricordo, forse, mai può essere ammonito.

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