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Lavoro servile e diritti umani, il compito del diritto

di Adriana Cosseddu

- Fonte: Città Nuova

Lavoro e dignità. La pandemia non ha posto un freno al fenomeno strutturale dello sfruttamento del lavoro bracciantile, come conferma il recente arresto, operato tra Terracina (LT) e Venezia da parte dei carabinieri dei Nas, di 7 persone con l’accusa di «associazione per delinquere finalizzata allo sfruttamento di extracomunitari in agricoltura, estorsioni ed uso di fitofarmaci non autorizzati per le coltivazioni in serra». Si propone, perciò, questo testo di approfondimento sulle filiere dello sfruttamento nelle nostre economie e l’impegno necessario per la dignità umana. Ciò che manca è il necessario rifiuto della concezione per la quale i lavoratori rappresentano meri costi di produzione che riducono il profitto

Lavoro braccianti Cecilia Fabiano/ LaPresse

Lavoro e dignità umana. Il tempo del Covid-19 ha fermato la nostra corsa; viviamo un “tempo sospeso”, che ha ridotto i nostri spazi, limitato i nostri scambi, le relazioni della nostra quotidianità. Ma è anche un tempo che ci fa sperimentare che l’altro si rende presente proprio in quella mancanza che avvertiamo: nel non poterlo incontrare, non poterci ritrovare, lavorare insieme. In una parola, avvertiamo che l’alterità è necessaria alla nostra vita e alla nostra realizzazione.

È un tempo in cui abbiamo condiviso la sofferenza e assistito a drammi umani, abbandoni, insicurezza, paura; e le immagini dal mondo continuano a dare evidenza a situazioni dalle quali non riusciamo più a sfuggire. Prendiamo coscienza di nuove discriminazioni – la possibilità di cura della propria salute non è per tutti -; nuove povertà, di chi si trova senza il lavoro, impotente dinanzi a un mercato che genera disparità e distorsioni, dove non a tutti è garantita neanche la sopravvivenza.

Una vita che si fa “scuola di vita”, dove l’altro, con il suo solo esistere, mi interpella per quella umanità che tutti ci accomuna. Penso che a partire da qui riaffiorano domande sopite, accantonate, su ciò che ci appartiene: la dignità comune a tutti gli uomini e che ci costituisce persone. Direi che è questa la sfida più grande: ritrovare l’altro, e riconoscerlo altro me, di pari dignità. Quanto affermo può sembrare qualcosa di scontato, ma in questi giorni mi sono fermata per un attimo a riflettere come anche la tecnologia, di sicuro preziosissima e lo sperimentiamo soprattutto ora, abbia in realtà silenziosamente cambiato le nostre vite.

Un tempo, non lontano, il nostro modo di presentarci era costituito dal nome che ci identificava. Oggi, sono innumerevoli le sedi nelle quali il farci conoscere nella nostra identità avviene piuttosto attraverso un PIN, o un Codice di accesso, un LOGIN; anche la firma si fa digitale…

Quale, se c’è, il rischio?

Che la nostra umanità, il volto dell’altro rimanga nascosto o sullo sfondo, senza storia. Questo tempo, invece, ce lo ha rimesso davanti, con la sua fragilità, la sua sofferenza, il suo vissuto. E non possiamo non ricordare che è la stessa umanità che nel secondo dopoguerra ha tracciato i solchi dell’Universal Declaration of Human Rights del 1948. Per assurdo, proprio la pandemia, con la sua universalità, rinnova oggi l’attualità di quella Dichiarazione, se è vero che i diritti umani esistono, in quanto l’uomo esiste; e i diritti umani sono sempre espressione della sua inestimabile dignità, che ne costituisce premessa e fondamento.

Direi di più. Nella Dichiarazione Universale la dignità  e il valore  della persona umana sono riconosciuti e si ri-conosce ciò che esiste in sé, tanto che i diritti che ne conseguono sono considerati meritevoli di “rispetto” e osservanza universale. Degli stessi si richiama una concezione comune e la piena realizzazione per tutti, membri della famiglia umana. Pensiamo che questi diritti, definiti “inalienabili”, sono prospettati come ideale comune, da raggiungersi da tutti i popoli e da tutte le Nazioni, fino a promuoverne l’universale ed effettivo riconoscimento.

Ma non è certo questa l’esperienza dell’umanità: nel mondo, assistiamo più a rivendicazioni individuali, che a un impegno comune di riconoscimento. Percepiamo una divaricazione fra chi è riconosciuto portatore di diritti, o pretese individuali, e chi no; chi è ascoltato e chi non ha voce, è emarginato, escluso dai tavoli della contrattazione. Eppure, se il diritto è del singolo, la responsabilità è di tutti!

La stessa definizione dei diritti in senso normativo, così che ne sia assicurata la protezione, ci coinvolge tutti perché è ciò che spetta alla dignità di ciascuno.

Mi hanno colpito le parole pronunciate all’Assemblea dell’ONU (2008) da Benedetto XVI, quando affermò che i Diritti umani non possono «apparire come l’esclusivo risultato di provvedimenti legislativi o di decisioni normative, prese dalle varie agenzie di coloro che sono al potere. Quando vengono presentati semplicemente in termini di legalità, i diritti rischiano di diventare deboli proposizioni […]. Al contrario la Dichiarazione Universale ha rafforzato la convinzione che il rispetto dei diritti umani è radicato principalmente nella giustizia che non cambia».

Pensiamo allora alle nuove forme di riduzione in schiavitù: tratta di esseri umani, sfruttamento sul lavoro in condizioni disumane, fino a una vera e propria riduzione in schiavitù; traffico di organi, violenze, abusi, sfruttamento della prostituzione, traffico di migranti…; capiamo che non c’è nulla di scontato, o ormai acquisito una volta per tutte, neanche la nostra umanità, che va sempre riconosciuta in ogni altro, nella sua alterità e diversità.

Per qualcuno, parlare di schiavitù può sembrare anacronistico, ributtarci indietro in quell’antichità, (o in un tempo più recente fino al XIX sec.), che riservava il lavoro più duro agli schiavi. Ma non va dimenticato che c’è voluto il faticoso cammino della storia per arrivare a definire il lavoro “connotato della cittadinanza”, ciò che rende l’esistenza degna di essere vissuta.

La stessa Dichiarazione Universale (all’art. 23) proclama – fra i diritti umani – e per ognuno, il diritto al lavoro, anzi, alla libera scelta dell’attività lavorativa, secondo condizioni giuste e soddisfacenti, senza discriminazioni, tali da garantire un’esistenza «conforme alla dignità umana». Il lavoro, dunque, non può prescindere dalla libertà, anzi ne è espressione; e, a sua volta, la libertà è costitutiva della dignità umana.

Così il lavoro non solo coinvolge tutto l’uomo, ma dà all’uomo dignità; di più, aggiungerei, di quella dignità ne diventa componente!

E se arriviamo oggi a parlare del lavoro come “realizzazione” della persona, nella sua libertà di esprimere le proprie capacità, vi è ancora un ulteriore ‘passo’ compiuto dalla Costituzione italiana: la reciprocità. All’art. 4 il lavoro è riconosciuto come “diritto” ma anche come “dovere”: ciò che spetta e ciò che si dà, il proprio contributo per edificare la società, senza differenze di valore!

E qui vorrei sottolineare un dato significativo: quando la Costituzione italiana (all’art. 35) enuncia l’impegno della Repubblica nella tutela del lavoro, aggiunge: “in tutte le sue forme ed applicazioni”, e dedica gli articoli che seguono al “lavoratore” e alla “donna lavoratrice”, con pari diritti. Chiude all’art. 46 con la piena collaborazione nel riconoscimento del diritto dei lavoratori alla gestione delle aziende.

Direi che, ricorrendo all’espressione lavoratori, la Costituzione lascia intendere tutti, cittadini e stranieri. Pensiamo alla sicurezza sul lavoro, vale per tutti! La stessa Corte costituzionale, a proposito del lavoro, lo ha definito la vocazione sociale dell’uomo, il vincolo di appartenenza attiva che lega l’uomo alla comunità degli uomini. E la Corte Suprema di Cassazione, a sua volta, ha definito la dignità del lavoratore: l’estrinsecazione della persona umana.

Qual è allora il compito del diritto?

Restando nell’ambito dell’economia e dell’attività d’impresa, si prospettano in ambito giuridico due visioni: da un lato, un ”diritto del mercato”, inteso come “diritto dell’autoresponsabilità”, che nella logica dello scambio – regola del mercato – non benefica né elargisce doni. Dall’altro, si levano altre voci a ricordare che gli “interessi degli ultimi”, non possono essere trascurati dal diritto.

Che cosa significa?

Non solo adottare interventi a carattere repressivo, a sanzionare comportamenti contrari alla legge e causa di danno, ma prevenire l’illecito, promuovendo nella cultura d’impresa il rispetto delle regole di lealtà e correttezza, senza privilegi e senza differenze. Questo vuol dire una legalità che non si limiti al “non nuocere”, “non offendere”, ma che arrivi a guardare al bene dell’altro come al proprio. Il mondo della ricchezza, si è detto, è costruito da tutti per tutti!

Pensiamo che la nostra Costituzione all’art. 36 (comma 1°) prevede per il lavoratore la garanzia di un’esistenza libera e dignitosa. La dignità assume così contenuto positivo, su cui misurare una “retribuzione proporzionata”, quale diritto spettante per il proprio lavoro.

Solo dopo, l’art. 41 prevede la libertà d’iniziativa economica, ma dispone che non possa “recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.

Dunque, la libertà economica ammette restrizioni, la dignità no, è piuttosto un limite invalicabile!

Che cosa comporta?

Che il giusto equilibrio tra mercato e società diventa possibile solo attraverso la declinazione fra leggi di mercato e diritti fondamentali della persona; e questo vuol dire, ricorrendo a un’espressione ripresa da Norberto Bobbio: ci sono le Carte dei diritti, ma i “diritti sono rimasti sulla Carta”, inattuati!

Ciò che manca è forse il necessario rifiuto della concezione per la quale i lavoratori rappresentano meri costi di produzione che riducono il profitto. Ed è allora compito di ognuno far sì che il diritto sia realmente regola di vita e coesistenza: e questo significa condividere umanità e dignità, uguaglianza di diritti e di doveri in una responsabilità condivisa, alla base di una vera “cultura di fraternità”.

Conoscerete quella forte espressione di Martin Luther King: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti».

È necessario, perciò, richiamare la nota formula del giurista Erich Kaufman: “Lo Stato è padrone della legge, non del diritto”. Le norme, dunque, non bastano a se stesse. E il diritto non può non ricercare la giustizia, anzi la giustizia diventa esperienza da ricercare – si evince in Gustavo Zagrebelsky – come l’altro lato del diritto.

Dove ricercarla?

Se al cuore del diritto vi sono le relazioni, da tutelare e ordinare, è della giustizia non solo il riconoscimento del ruolo dell’altro, come lavoratore- ad es. -, ma della persona dell’altro, parte con me del rapporto, che generiamo insieme, con pari dignità.

Allora il discorso sul diritto è un discorso che tutti ci riguarda! Il diritto vive nei nostri comportamenti, come persone e come cittadini; e il Covid ce lo ha insegnato.

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