C’è un momento, in ogni coscienza, in cui non si può più voltare lo sguardo. Un punto in cui l’orrore che ci raggiunge diventa insopportabile. Non perché non si possa reggere il dolore, ma perché non si può più tollerare l’indifferenza. In quei momenti, ci si ricorda che essere umani significa anche scegliere da che parte stare.

L’artista Peppino Quinto.
Ed è proprio in questo spazio interiore, fragile e sacro, che si è collocata la recente iniziativa che ha coinvolto tante realtà del nostro territorio: la presentazione delle sculture dell’artista Peppino Quinto. Non è stato solo un evento culturale, è stata una risposta civile e collettiva a ciò che ci appare ormai intollerabile: la normalizzazione della violenza, l’accettazione della barbarie, il silenzio davanti al massacro del popolo palestinese.
Chiunque abbia posato lo sguardo sulle opere di Peppino Quinto nel Cortile di San Simeone, nel centro storico di Fondi, sa di cosa parlo.
La scultura, “Il grido della mamma palestinese” colpisce per la forza drammatica che emana. Interamente realizzata in un rosso acceso – simbolo di sangue e dolore – l’opera raffigura una madre nel gesto disperato di un grido lacerante. Il volto contratto dal dolore racconta la tragedia di una maternità ferita, impotente davanti all’orrore della guerra. La madre palestinese è l’archetipo di tutte le madri travolte dalla violenza, dal lutto, dalla perdita, ingiusta e ingiustificata. Non chiede interpretazione, ma ascolto. Attenzione.

Accanto a lei, “I Caini e gli indifferenti” ci mette davanti allo specchio. Al centro, i volti di bambini distrutti, devastati dalla guerra, non solo fisicamente ma anche nella loro innocenza. Intorno, a circondarli, ci sono due categorie di volti: quelli dei “Caini”, simbolo di chi infligge il male, e quelli degli “indifferenti”, coloro che voltano lo sguardo, che scelgono il silenzio. L’opera è una denuncia potente contro l’atrocità e la complicità passiva, un grido contro l’umanità che si disumanizza.
Il Cortile di San Simeone, nel centro storico di Fondi, con il suo pavimento di colore rosso, si è rivelato lo spazio ideale per ospitare queste opere. Il rosso sembra dialogare con le sculture, quasi a completarne il linguaggio espressivo, fondendosi con quello della madre che grida, amplificandone il dolore.
L’arte, quando è autentica, quando nasce da una ferita che è al tempo stesso personale e collettiva, non ci lascia alternative. Ci costringe a fare, agire, così come ha fatto lo scultore con le sue mani.
Peppino Quinto, originario di Lenola, figura autorevole nell’ambito della scultura, è riconosciuto non solo nella provincia di Latina, ma anche in contesti nazionali. La sua produzione artistica, profondamente radicata nella memoria e nella denuncia, nasce da esperienze personali intense: durante i bombardamenti su Lenola, racconta, era nel grembo di sua madre, un trauma collettivo che ha lasciato un’impronta indelebile nella sua sensibilità e motivo per il quale il tema della madre nelle sue opere è particolarmente sentito.
Nel nostro piccolo, nella nostra comunità, abbiamo voluto dire che Fondi non è indifferente. Che chi vive qui sa ancora distinguere tra giustizia e oppressione, tra vittima e carnefice, tra verità e propaganda.
Ogni gesto, quando nasce da una comunità consapevole, diventa seme. E i semi germogliano. Anche in tempi oscuri.
In quella serata abbiamo ascoltato storie che lacerano.
Tra tutte, quella evocata da Paola Marcoccia, presidente di Legambiente, ci ha trafitto il cuore: la storia di Ala al Hajar, pediatra di Gaza, che per anni ha curato e salvato i bambini del suo popolo, donando loro speranza nel mezzo dell’inferno.
Poi, un solo bombardamento ha spazzato via tutto: la sua casa, il marito e 9 dei suoi 10 figli. Una storia di strazio e devastazione, ma anche di una forza interiore capace di rinascere dal dolore più assoluto.
E poi Pino Casale, presidente dell’Azione Cattolica della Diocesi di Gaeta, nel suo intervento ha richiamato il simbolo universale della madre nel dolore, che attraversa popoli e religioni. Quella madre, scolpita nel suo grido, è ogni madre colpita dalla guerra, e diventa immagine di Maria ai piedi della croce: “Stabat Mater dolorosa, iuxta crucem lacrimosa“. Un legame spirituale e umano che ci interroga profondamente.
Abbiamo scelto di fare anche qualcosa di concreto: raccogliere fondi per garantire acqua — non un lusso, ma un diritto — alla popolazione palestinese.
L’ANPI è stata naturalmente promotrice di questa iniziativa. Perché lo spirito partigiano di cui siamo eredi è di libertà e autonomia dei popoli, delle persone che li compongono. Perché tutte le parole, le storie, finanche gli sguardi e le posture, anche da anziani, di quelle donne e di quegli uomini, hanno raccontato e raccontano che la vita o è senza tremare per uno scoppio o una cattura, senza scegliere cosa essere e fare, o non è.
Quando dico che l’ANPI deve essere viva, non intendo solo nel custodire la storia del passato. Intendo che deve saperla agire nel presente. Come sta facendo in tantissime iniziative sparse in tutto il territorio nazionale.
Intendo che l’eredità della Resistenza ci obbliga, oggi, a resistere dove i diritti vengono calpestati. A denunciare dove l’ingiustizia si fa sistema. A fare rete, in modo plurale e civile. Perché il senso, il moto di indignazione per quello che sta accadendo a Gaza è largamente trasversale. Non solo in termini politici. C’è un mondo, anche impolitico, di persone avvertite solo umanamente, che si sta mobilitando. Gaza è il mondo. Gaza è un cuore diffuso oltretutto in non poche coscienze della popolazione israeliana, che sta scendendo in piazza e che fa circolare notizie. Che non si volta dall’altra parte comoda e comandata.
Questo è il senso dell’iniziativa. Non l’arte per l’arte. Non la pietà sterile. Ma un grido condiviso, un abbraccio, una presa di coscienza collettiva.
Non perdiamoci di vista e di unità.