L’arcipelago dei sogni

Le isole Tonga, tappa densa di incognite di un emozionante romanzo marinaresco ambientato nell’Oceano Pacifico

Sfogliando un vecchio numero di Città Nuova, mi è capitato di nuovo tra le mani un mio vecchio articolo del 1993 in cui intervistavo un giovane polinesiano delle Isole Figi, ritenute “gli ultimi confini della Terra”, almeno da noi europei, abituati a considerarci al centro del mondo.

«I miei genitori – raccontava Maka (il cui nome completo suona Timote Maka Maka Aleva) – sono originari di Viti Levu, la maggiore delle Figi. Io però sono nato e rimasto a Tonga fino a tredici anni, in adozione presso mia nonna paterna…».

Tonga! Ma non è il nome dell’isola citata da Salgari nel romanzo I solitari dell’oceano che ho appena finito di rileggere? Proprio così. Ecco come egli descrive, in questo testo del 1904 denso di emozioni e colpi di scena, quell’agglomerato di isole sperdute nell’immensità del Pacifico:

«L’arcipelago di Tonga-Tabù, nell’epoca in cui accaddero gli avvenimenti narrati, era ancora allo stato completamente selvaggio e godeva una fama tristissima, peggiore di quella delle Figi, delle Ebridi e delle Salomone. Anche oggidì è uno dei più considerevoli ed uno dei più popolati e la civiltà vi ha fatto pochi progressi in causa del carattere violento e battagliero dei suoi abitanti.

Esso si divide in tre gruppi distinti, chiamati quello di Tonga al sud, di Hapai nel centro e di Vavau a tramontana. Dire il numero di quelle isole è quasi impossibile. Ve ne sono moltissime e di tutte le dimensioni, ma le più considerevoli sono quelle di Tonga, di Vavau, di Hapai, di Ena, di Amargura, di Lafura e di Namuca. Sono tutte di natura corallifera, però qualcuna è vulcanica, anzi Tafua Lao, che è la più alta, ha il suo picco centrale coronato da un vulcano fiammeggiante».

E a proposito di vulcani: a circa 65 chilometri dalla capitale Nuku’alofa ce n’è uno sottomarino piuttosto turbolento: l’Hunga Ha’apai. Il suo risveglio nel dicembre 2014, dopo cinque anni di inattività, ha dato vita con spettacolari eruzioni ad una nuova isola alta cento metri, lunga due chilometri e larga poco più di uno.

Continua Salgari: «Queste isole sono d’una fertilità meravigliosa e vengono giustamente annoverate fra le più ricche dell’Oceano Pacifico, quantunque siano prive di sorgenti e perfino di ruscelli. Nondimeno l’acqua abbonda egualmente nel sottosuolo e basta scavare un po’ la terra per scoprire ampi stagni sullo strato corallifero impenetrabile.

La flora di queste terre è quindi ugualmente opulenta ed i boschi le coprono dalle rive del mare ai picchi dell’interno. Hanno i preziosi alberi del sandalo, dei moscali, poco aromatici però, canne da zucchero, mori papiriferi, noci di cocco, banani superbi, casoarine e fichi colossali alti quaranta e più metri, invece sono scarse di selvaggina come tutte le isole della Polinesia, non avendo che volatili, cani, porci e topi.

I loro abitanti per bellezza, per intelligenza e per industria, tengono il primo posto nella famiglia polinesiaca, eppure sono stati annoverati fra i più feroci e i più crudeli ed in tutti i tempi hanno dato molto da fare agli equipaggi sbarcati sulle loro spiagge».

Più volte, nel corso della narrazione, Salgari accenna all’antropofagia praticata dagli abitanti dell’arcipelago. Tornando a Maka, questo lontano discendente di antropofagi, mi diverto a immaginare il simpatico, estroverso e allegro polinesiano dell’intervista secondo la descrizione che lo scrittore fa dei selvaggi venuti a curiosare attorno all’Alcione, la nave arenatasi a Tonga, a bordo della quale si trovano i protagonisti del romanzo: «Erano tutti begli uomini, essendo la razza polinesiana di gran lunga superiore a quelle malese ed all’australiana. Avevano la statura alta, la corporatura ben fatta, largo il petto e muscolose le membra. I loro volti ovali, i loro occhi bellissimi ed i loro lineamenti poco dissimili da quelli della razza caucasica, nulla avevano di selvaggio né di feroce. Anche la loro pelle d’una tinta un po’ oscura a riflessi rossicci non era spiacevole. Erano quasi tutti nudi, non avendo che un perizoma di fibre di moro papirifero che nascondeva malamente le loro anche e pochi braccialetti di conchigliette bianche e di peli di cane intrecciati».

Tutte caratteristiche riscontrate anche in Maka… tranne la nudità!

Ben presenti a Salgari, che non di rado sfiora la poesia, sono le attrattive naturali dell’isola: «Era una costa molto boscosa, frastagliata da piccoli seni e difesa da rocce corallifere irte di punte aguzze. Splendidi alberi s’incurvavano graziosamente sulla baia, mostrando le loro lunghe foglie piumate che la brezza mattutina agitava lievemente con un sussurrìo armonioso».

E a proposito dei fondali marini: «Sulla fina sabbia del fondo si vedevano apparire truppe di chaetodintidae di forme strane e dalle tinte smaglianti, rosse, verdi, gialle e nere; dai buchi delle madrepore si vedevano sorgere splendidi anellidi dalle branche penniformi simili a nastri azzurri, verdi, aranciati, mentre a fior d’acqua vagavano meduse a campana, e grosse pysaglia in forma di vesciche color dei zaffiri e le code strascicanti».

Ma da dove lo scrittore veronese ha ricavato le notizie storico-naturalistiche sull’arcipelago di Tonga disseminate nei Solitari dell’oceano? Senza dubbio dai diari dell’esploratore britannico James Cook, che ne fu lo scopritore nel 1777, diari di cui all’epoca di Salgari circolavano in Italia traduzioni anche parziali, apparse in riviste specializzate.

Mi è capitato, infatti, di leggerne ampi stralci scorrendo il volume terzo di una di queste, pubblicata a Venezia nel 1843: Oceania o quinta parte del mondo. Rivista geografica ed etnografica della Malesia, della Micronesia, della Polinesia e della Melanesia sui resultati dei viaggi e delle scoperte dell’autore e de’ suoi predecessori e colle nuove classificazioni e divisioni di quelle contrade di G.L. Domeny De Rienzi, viaggiatore in Oceania, in Oriente, ecc. ecc. traduzione di A. Francesco Falconetti adorna di trecentodieci incisioni.

Ebbene, alcuni particolari desunti dai resoconti di Cook, come l’usanza, presso gli isolani di Tonga, di salutarsi strofinandosi reciprocamente i nasi e di considerare la radice della pianta del pepe emblema di pace, sono trasferiti pari pari nelle pagine del nostro romanzo.

Oggi questo gruppo di 176 isole nel sud del Pacifico con oltre 120 mila abitanti viene decantato dalle agenzie turistiche con termini del genere «un arcipelago incontaminato per vacanze da sogni all’insegna di mare, spiagge bianche e avventura». Passi per il mare e le spiagge bianche. Ma dov’è l’avventura, dato che di antropofagi non c’è più l’ombra e l’attuale re di Tonga, Tupou VI, esibisce membra ben pasciute non certo grazie a banchetti di carne umana? Bisognerà cercarla nelle pagine di capitan Cook o di capitan Salgari.

 

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