Che l’Apocalisse venga inteso, da tempo, come sinonimo di catastrofe inevitabile e tremenda, la fine di tutto, lo dicono da secoli i dipinti e le opere letterarie. E lo dice anche il cinema, con una insistenza maggiore negli ultimi decenni. Quasi esorcizzasse la paura della fine sia del singolo che del mondo, parlandone e riparlandone.
Ovviamente, in Bugonia, siamo negli States, in cui il cinema apocalittico ha gran seguito ed il regista Yorgos Lanthimos ci offre, con il suo stile fantasioso, estremo, una storia crudele e dolorosa. Metafora delle ansie del nostro tempo di guerre ed estremismi.
Bugonia è la vicenda di due cugini, Teddy (Jesse Plemons, bravissimo) e Don (Aidan Delbis), che vivono da soli e hanno sofferto, il primo di abusi durante l’infanzia ed ora ha la madre in coma, il secondo è psicologicamente immaturo. Teddy è ossessionato dall’idea del complotto degli alieni per distruggere il pianeta, così i due rapiscono una donna potente, disumana, cioè Michelle, CEO di una azienda di bioingegneria farmaceutica, convinti che sia una aliena mandata fra a noi a distruggerci. La torturano, la imprigionano, discutono con lei che è psicologicamente superiore ed anche tenta di confonderli, di ingannarli.
Teddy, che ama le api attaccate dai veleni pestiferi delle industrie, la considera colpevole anche di questa forma di attentato alla vita.
La morte è onnipresente. Non solo nel dibattito violento fra Teddy e Michelle o nel poliziotto che l’ha violentato e che ora indaga sulla scomparsa della donna, ma sulla tragica fine dell’umanità ben prevedibile che Lanthimos mostra in una serie agghiacciante di sequenze di sangue, di uccisioni, di una terra distrutta dove tutto è morte, tranne l’aliena, una sorta di “angelo vendicatore”. Lucido ma anche catastrofico e dispersivo, fantasioso e onirico, e pure violento, il film-metafora è teso, duro e riflette la negritudine del nostro tempo, si direbbe del mondo occidentale. La donna-angelo sterminatore è Emma Stone, perfetta ad incarnare la dirigente fredda e spietata, avida di morte in un film che non concede un filo di speranza. Siamo già dentro l’Apocalisse?
Essa esiste, anche se flebilmente, forse in Dracula -L’amore perduto, in cui Luc Besson ritorna ad un soggetto ampiamente sfruttato dal cinema. Ancora una volta si parla di morte. Nel secolo XV il principe Vlad, innamorato della moglie, la perde. Accusa Dio che pure ha seguito sconfiggendo i turchi ed è condannato da Lui – egli crede – all’immortalità e al sangue. Passano i secoli, Dracula cerca la moglie perduta reincarnata in altre donne, finché a Londra, in epoca vittoriana, la vede in Mina, bellissima, che sposa e porta con sé in Moravia nel castello misterioso e oscuro.
Un prete medico (Christopher Waltz) lo ricerca, lo trova: deve morire per distruggere la maledizione su di lui e gli altri vampiri. Durante un colloquio tempestoso il prete gli chiarirà che è lui stesso l’autore della maledizione, non Dio e che per salvare Mina dovrà morire: la morte per amore, così che la luce ritorni in tutti e un pezzo di cielo si apra sul tenebroso castello e sulle sue vittime.
Film sontuoso, brillante, fastoso nelle scene di danze, palazzi e prigioni orribili, o in castelli da fantasy gotico orrorifico, è un racconto fotograficamente seducente, incalzante e un po’ barocco sull’amore che non va mai perduto, in cui il protagonista Caleb Landry Jones è perfetto, insieme alla Mina di Zoe Bleu. Colonna sonora adatta in un lavoro che nel gusto enfatico deve parecchio al film di Francis Ford Coppola del 1992. Molto interessante.