«Abbiamo scritto una lettera, cercando di spiegare i fatti casomai lei venisse arrestato. L’hanno firmata tutti gli operai». Siamo alle ultime battute del film. Oskar Schindler, magistralmente interpretato da Liam Neeson, sta lasciando per l’ultima volta una delle sue fabbriche per fuggire dietro le linee americane. I “suoi operai”, circa 1200 ebrei salvati dall’industriale tedesco dallo sterminio tramite sotterfugi ed il pagamento di mazzette a funzionari delle alte sfere naziste con la scusa di assicurarsi manodopera per lavorare agli armamenti necessari alla Germania nella Seconda guerra mondiale, gli consegnano una lettera. Questa, contiene una dichiarazione in cui si afferma che Schindler, ufficialmente ricercato per la sua affiliazione al partito nazionalsocialista, non è da considerare un criminale di guerra. Il suo contabile, Itzhak Stern (nel film interpretato dall’attore Ben Kingsley), gli si avvicina e gli consegna un anello recante la scritta, tratta dal talmud (uno dei testi sacri dell’ebraismo), “Chi salva una vita, salva il mondo intero”.
Schindler, visibilmente commosso, scoppia a piangere rendendosi conto che, rinunciando a cose di cui solo in quel momento percepisce tutta la “futilità”, avrebbe potuto salvare molti più ebrei. Ma Stern lo consola, e con quella frase “Chi salva una vita, salva il mondo intero” vuole in qualche modo ricordargli che il fare qualcosa per gli altri, da un piccolo gesto di altruismo fino al salvare una vita anche di una sola persona, ha un immenso valore. Ormai lo avete capito, stiamo parlando di Schindler’s List, la straordinaria pellicola diretta da Steven Spielberg, ispirata a fatti realmente accaduti, e che esattamente da trent’anni (uscì nelle sale cinematografiche nel 1993) è uno dei film che non può mancare nei palinsesti televisivi annuali della Giornata della Memoria, l’ultima delle quali è stata celebrata proprio qualche giorno fa, e che come ogni 27 gennaio vuole commemorare le vittime dell’Olocausto.

Qatar 2022 – Coppa del Mondo Fifa – Galles vs Iran: tifosa iraniana con la maglia in ricordo di Mahsa Amini (Foto Fabio Ferrari/LaPresse 25 Novembre 2022)
Ma veniamo ai giorni nostri. Payam Niazmand non ha letteralmente “salvato delle vite”, e non è neanche un famoso industriale. Payam è “solamente” uno sportivo di 27 anni, francamente anche sconosciuto ai più. Gioca a calcio, più precisamente in porta, e a fine 2022 ha preso parte (pur non scendendo mai in campo) ai campionati del mondo disputati in Qatar con la nazionale del suo Paese: l’Iran. Era lì, nella prima partita della fase a gironi persa 6-2 contro l’Inghilterra, quando i suoi compagni di squadra scelsero (prendendosi non pochi rischi) di non cantare l’inno prima dell’inizio del match in segno di solidarietà verso chi, in Patria e proprio da alcune settimane, manifestava e protestava contro il regime. Proteste, inasprite dalla morte della giovanissima Mahsa Amini, ventiduenne curda deceduta dopo il suo arresto avvenuto per il mancato rispetto delle regole islamiche sull’obbligo di indossare il velo.
Payam era presente anche nelle due partite successive disputate dalla sua nazionale, quella vinta 2-0 contro il Galles, e quella persa di misura 1-0 contro gli Stati Uniti. Incontri, disputati dopo che il governo iraniano aveva inviato in Qatar diverse guardie al seguito della squadra per controllare che “lo smacco” dell’inno non cantato non si ripetesse più. Il tutto, sotto la minaccia di ricorrere a duri provvedimenti nei confronti dei giocatori ma anche delle rispettive famiglie qualora qualcuno si fosse nuovamente “ribellato”. Alla fine, l’Iran è tornato a casa non riuscendo a qualificarsi per gli ottavi di finale, e ad ogni giocatore è stato riconosciuto un premio di partecipazione del controvalore di circa 9.000 euro. Una piccola cifra, soprattutto se confrontata con quella che hanno ricevuto giocatori di nazionali molto più blasonate di quella asiatica. Eppure, una cifra comunque sufficiente a Payam per rendersi protagonista di un gesto di solidarietà davvero significativo di cui si è avuta notizia solo da qualche settimana.
Il giocatore, infatti, che attualmente gioca in prestito nella Persian Gulf Pro League, massima divisione del campionato iraniano di calcio, momentaneamente ceduto dal Portimonense, società calcistica che da qualche anno milita nella Primeira Liga, il principale campionato portoghese, ha deciso di utilizzare i soldi del premio per aiutare venti persone (diciotto uomini e due donne) recluse nelle prigioni della provincia di Isfahan, aiutandole ad uscire dal carcere pagando loro la cauzione dopo essere state condannate a tre anni di detenzione sempre, a quanto è dato sapersi, per proteste nei confronti del regime di Teheran, ed incapaci a causa di precedenti debiti di fare fronte al pagamento necessario per la scarcerazione. Un gesto, che successivamente ha spinto altri suoi compagni, per così dire, a farsi avanti e ad alzare la voce.
Come ha fatto Mehdi Terami, trentenne attaccante del Porto e della nazionale iraniana, che proprio nei giorni scorsi, “ispirato” anche dal gesto di Payam, è tornato a richiedere nuovamente il rilascio di tutte le persone arrestate durante le proteste antigovernative degli ultimi mesi (secondo alcune agenzie di attivisti iraniani circa 20.000 da quando hanno avuto inizio le proteste). Cosa che, peraltro, aveva già fatto nelle settimane scorse via twitter, sostenendo tra le altre cose che «la giustizia non può essere fatta con un cappio. Quale società troverà pace con spargimento quotidiano di sangue ed esecuzioni?».
È proprio vero: “Chi salva una vita, salva il mondo intero”. Il gesto di Payam, in qualche modo, ci testimonia ancora una volta che anche attraverso l’azione di un singolo essere umano, si possano compiere gesti simbolici di enorme rilevanza, in qualche modo equiparabili a “salvare il mondo intero”.
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