L’accoglienza della maternità

Fuori dai contesti rituali ancora vigenti decenni orsono, l’esperienza dell’accoglienza di un figlio espone alla solitudine della madre e della coppia. L’importanza di una comunità accudente. Intervista a Daniela Notarfonso, medico biotecista e responsabile di consultorio

Daniela Notarfonso

A margine del convegno “Donne equilibriste…tra maternità e lavoro” svoltosi recentemente a Genova, dopo l’intervista a Maria Rosa Biggi, promotrice del seminario e presidente regionale Centro italiano Femminile Liguria, abbiamo sentito Daniela Notarfonso, medico bioeticista e responsabile di un consultorio familiare, nel merito dell’esperienza della maternità nel tempo odierno.

Partiamo dalle radici della maternità: nella sua esperienza individua delle costanti trasversali a tutte le donne, di condizione economica e culturale diversa?

Il sentire delle donne che vivono in Occidente riguardo alla maternità oggi ha sicuramente un denominatore comune a tutte, indipendentemente dalle condizioni economico sociali. Essere madri è una scelta e una sfida con la quale tutte le donne debbono confrontarsi. L’orizzonte culturale influenza tutte con le sue spinte alla realizzazione personale e all’autodeterminazione considerati valori irrinunciabili. Certo nelle scelte concrete il titolo di studio, il lavoro e il tenore di vita possono favorire o meno la realizzazione concreta della maternità: spesso infatti uno dei motivi per cui non si fanno figli, o se ne fa solo uno, è proprio l’aspetto economico o la difficoltà di accesso ai servizi di cura come gli asili nido. C’è poi la condivisione del progetto col proprio partner, non c’è dubbio che se gli uomini sono disponibili a mettersi in gioco nella cura dei figli le donne possono vivere questa scelta con un po’ di serenità in più e non dover mettere da parte il lavoro per troppo tempo, cosa che spesso è ostacolata in modo fermo dai datori di lavoro.

Nel suo intervento al seminario di Genova ha sottolineato la necessità di ricostruire un contesto culturale di condivisione per superare la solitudine in cui tante donne affrontano la maternità. A quali livelli e come sviluppare questa assunzione di responsabilità da parte della comunità?

 Nella società patriarcale, le puerpere per un mese quasi non si alzavano dal letto. La loro capacità di allattare, unica possibilità di sopravvivenza per i neonati, doveva essere salvaguardata in ogni modo e le mamme, zie, sorelle, nonne formavano una comunità coesa nella quale si tramandavano consigli e rimedi, non sempre efficacissimi, ma che consentivano alla neo-mamma di sentirsi inserita in un contesto accudente. Io stessa ho fatto esperienza di ciò, alla nascita del mio primo figlio, 28 anni fa, una zia si offrì di fargli il primo bagnetto (un passaggio che mette sempre un po’ in crisi le mamme e i papà per i quali quel piccolo fagottino di circa tre chilogrammi, che è il loro figlio, sembra un peso insostenibile…) e si fermò con noi per le prime due settimane con il suo bagaglio di detti e consigli, a volte del tutto irrazionali e antiscientifici, che costruivano un senso di protezione ed erano il segno di un accudimento, oltre che del bambino, della mamma stessa che vive un momento di vulnerabilità e di grandi cambiamenti psicofisici.

E oggi?

Oggi spesso le famiglie d’origine sono lontane e le mamme o le suocere, se ci sono, vengono vissute quasi come delle intruse che vanno a togliere alla coppia la loro intimità. La donna deve tornare subito in forma, soprattutto per il partner che, in alcuni casi rischia di sentire il figlio quasi un concorrente delle attenzioni della moglie/compagna/madre… Possono generarsi tensioni e dinamiche negative che rischiano di favorire la sindrome da depressione post-partum che necessita poi di interventi specialistici.

C’è quindi bisogno di una maggiore attenzione?

Credo che l’intervento di cura della coppia madre-figlio vada fatta fin dagli ultimi mesi di gravidanza nei corsi di accompagnamento alla nascita che dovrebbero sempre prevedere la presenza di entrambi i genitori, per aiutare anche i papà a coinvolgersi subito in una esperienza che ancora non li vede protagonisti. Dopo il parto e nei primi mesi di vita del bambino poi, oltre che favorire la presenza dei papà a casa, e soprattutto se non c’è una rete famigliare competente, sarebbe bene avere a disposizioni delle figure di cura che rassicurino la mamma sulle sue capacità e risorse nell’accudimento del bambino. La figura dell’ostetrica domiciliare sarebbe molto importante per rispondere a quei piccoli dubbi e problemi che pur non essendo gravi sono a volte destabilizzanti per le giovani mamme. Così come le reti di mamme per la promozione dell’allattamento al seno. Un’esigenza sentita che ha dato vita alla nascita di reti di donne di varia professionalità che, dopo l’esperienza della maternità hanno pensato di rispondere a quella esigenza di comunità costituendo delle associazioni che accolgono le donne dalla gravidanza ai primi mesi del bambino, con la disponibilità ad andare a casa a fare gruppi di socializzazione con scambi di vissuti ed esperienze; tutto per far vivere alle mamme ed ai papà l’esperienza della genitorialità come un’esperienza esaltante anche se difficile.

 

 

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