La Traviata una e molteplice di Artemis Danza

Un vertiginoso, avvincente, percorso dell'anima nella fine nella “Traviata” della coreografa Monica Casadei
Traviata

Il celebre brano “Libiamo ne' lieti calici…” s'ode già mentre si entra in sala. All'apertura del sipario sei donne in vaporosi abiti da sposa, ruotano come manichini di una vetrina in esposizione, o di un carillon. Le braccia alzate, e con in mano le coppe del brindisi, pian piano cedono disarticolandosi. Quel brindisi, preludio di festa e felicità, si spezza mentre infieriscono le parole reiterate “È tardi!”.

 

È troppo tardi, non c'è più nulla da festeggiare, si direbbe. Tutto è già compiuto. Scorre il senso della fine nella “Traviata” della coreografa Monica Casadei, che inizia con la vicenda di Violetta che è già una sconfitta della sua vita, segnata, anche per la malattia, dall'impossibilità di poter amare. E quel ricorrente colore bianco, segno di una purezza dell'anima a dispetto della deprecata prostituta, rappresenta il suo anelito all'amore vero, puro. Sentimento legato alla sensazione di sapere che tutto finisce, mentre si consuma il conflitto tra singolo e società, tra pubblica facciata e privato. Contro di lei si scagliano le ipocrite regole borghesi espresse soprattutto da Giorgio Germont, il padre di Alfredo, qui assurto a emblema di una società moralmente marcia.

 

Lo scontro della donna è con lui più che con il figlio oggetto del suo tormentato amore. In questa lettura il celebre melodramma di Verdi trova così una intensa traduzione nel linguaggio danzato della coreografa ferrarese e della sua compagnia Artemis Danza, che, con questo fortunatissimo spettacolo (ancora in tournée internazionale) inaugurò la sua trilogia “Corpo a corpo. Verdi” (Rigoletto, Traviata, Trovatore) nel 2011, quale omaggio per il centenario verdiano. Violetta è una e molteplice, riprodotta in più figure femminili tutte uguali, grondanti sangue – per la malattia, per la passione, e per le ferite del cuore – nei lunghi abiti rossi che strisciano supplichevoli, ondeggiano seducenti, o volteggiano come vele, contrapposte al nero degli uomini, coro minaccioso e disprezzante, maschera d'ipocrisia e di maschilismo.

 

 

Con le mani sempre in tasca, eccoli infatti bloccare l'andare sofferto di Violetta calpestandole il lungo velo bianco; o in gruppo circondarla per deriderla. Il flusso danzato sulla partitura musicale rielaborata da Luca Vianini, è continuo: sia che la luce circoscriva assoli frontali o di schiena, energici o da danza butoh; sia che si espanda in più zone o a tutto il palcoscenico irrorato frontalmente di argentei riflessi trascoloranti in rosso e in giallo.

 

Nel crescendo della temperatura emotiva dello spettacolo si incastonano autentiche perle coreografiche: con un assolo di schiena che articola le sole scapole; un altro frontale di Germont-padre di debordante fisicità; un successivo sul proscenio nel fiammeggiante e vigoroso fluire delle braccia mentre nel fondo un'altra Violetta, algida e assente, lentamente attraversa la scena, quasi andasse incontro al suo destino di morte.

 

Per terminare, in chiusura, con una tempestosa massa che ondeggia avanti e indietro, e depositarsi a terra in fila sul proscenio con le mani e le teste penzolanti all'indietro, mentre una donna specchiandosi su una striscia luminosa piovuta dall'alto, dibattendosi si denuderà dell'abito bianco disarticolando il corpo come una marionetta per cedere allo spasmo. E con la celebre aria “Amami Alfredo”, invocazione disperata di amore, ripetuta ossessivamente in loop, e con movimenti vigorosi che ci mostrano la solitudine di Violetta, si chiude questa vertiginoso, avvincente, percorso dell'anima.

Il 17/3 a Faenza, Teatro Masini; il 18 a Cles (Tn), Teatro Cles

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons