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Persona e famiglia > L'Intervista

La “sofferenza” e la fragilità/forza di un figlio

a cura di Patrizia Carollo

- Fonte: Città Nuova

Abbiamo dissertato sul tema della sofferenza, partendo dalle origini nella sacra Bibbia, e sulla fragilità che si tramuta in forza nei figli, con la mamma e teologa Maria Cardinale.

Foto: Pexels

Cosa significa la sofferenza? Quali le origini? E cosa significa essere genitori di un figlio “fragile”? Ci siamo posti queste domande, perché la sofferenza è tutt’uno col sole: sono cioè entrambi onnipresenti in ogni angolo di terra. E perché di sofferenze ne conosciamo diverse: da quella più devastante (come la fame, le guerre) a quella più sottile e logorante, ossia il mal d’anima, quando ad essere colpito è il cuore e la mente. La fragilità umana, del resto, contraddistingue proprio l’essere umano, come essere limitato e finito, soggetto a malattie e alla morte corporale. Ma quando la malattia colpisce anche un figlio, l’esperienza per un genitore diventa ancora più ardua. Si è offerta di dissertare sul tema, la teologa Maria Cardinale, docente alla Scuola Teologica di Base di Palermo.

Partiamo, dapprincipio, Maria. Cosa significa oggi, la sofferenza?
La sofferenza in tutte le sue manifestazioni costituisce uno dei problemi maggiori che hanno angosciato e angosciano gli uomini. Nonostante le innumerevoli conquiste della scienza in campo sanitario, la malattia costituisce infatti ancora oggi una piaga nelle dimensioni del vissuto sociale, specialmente nel caso di infermità grave e disperata.

Com’è affrontato il tema nella Bibbia?
Nell’Antico Testamento, Israele sperimenta che la malattia è legata al peccato e al male, infatti la troviamo tra le punizioni minacciate da Dio all’infedeltà del popolo, in Esodo 15:26 si legge: «Se ascolti attentamente la voce dell’Eterno, ch’è il tuo Dio, e fai ciò ch’è giusto agli occhi Suoi e porgi orecchio ai Suoi comandamenti e osservi tutte le Sue leggi, Io non ti manderò addosso alcuna delle malattie che ho mandato addosso agli Egiziani, perché Io sono l’Eterno che ti guarisco».

La malattia però colpisce anche i giusti e l’uomo se ne domanda il perché.
Nel libro di Giobbe questo interrogativo percorre molte delle sue pagine. Se è vero, infatti, che la sofferenza ha un senso come punizione quando essa è legata alla colpa, non è, invece, vero, che ogni sofferenza sia conseguenza della colpa e abbia carattere di punizione. La figura del giusto Giobbe ne è una prova speciale nell’Antico Testamento: il Signore acconsente infatti che Giobbe testi la sofferenza, per dimostrarne la giustizia.

La sofferenza assume allora carattere di prova
Sta scritto infatti nel libro del Qoèlet: «Accetta quanto ti capita, sii paziente tra le tue vicende dolorose, perché nel fuoco si prova l’oro, e gli uomini graditi nel crogiuolo del dolore (Qo 2,4-6)».

E quale esempio è più calzante del dolore unito alla passione redentrice di Cristo?
Gesù fu, di certo, sensibile alla sofferenza umana, dimostrò compassione e tenerezza verso i malati, i sofferenti e i bisognosi. Molti dei suoi miracoli furono compiuti proprio per liberare gli uomini dalle sofferenze e dalla malattia (guarigione del paralitico in Gv 5). E anche ai discepoli inviati in missione temporanea nei villaggi della Palestina, Gesù diede il potere di guarire le infermità. In questo modo Egli mostrò che il regno di Dio nella sua completa realizzazione esclude ogni dolore e sofferenza umana. Però Gesù non solo ha lenito le sofferenze umane, ma ha voluto lui stesso provare il dolore fino all’estreme conseguenze. Infatti nell’imminenza della sua passione è turbato e prova un’angoscia mortale; nel Getsemani la tristezza e lo scoramento lo assalgono in maniera intensissima; è tradito da un amico (Mt 26,49-50), è abbandonato dagli apostoli (Mt 26,56), è rinnegato da Pietro (Lc 22,54-62), oltraggiato dalla folla, dai soldati e dai sommi sacerdoti.

Accettata in unione con Cristo crocifisso, la sofferenza umana è, dunque, sopportabile?
Si attenua, di certo. Perché Gesù diventa il nostro conforto e la nostra consolazione. Secondo la dottrina dell’apostolo Paolo, le sofferenze e le tribolazioni della vita presente sono, peraltro, anche un dono, una grazia divina, perché assimilano il credente a Cristo stesso e lo inondano della gioia della vittoria che proviene dalla risurrezione di Gesù.

Come può comprendere ciò, chi vive l’angoscia per la malattia di un proprio familiare?
Non è facile. Soprattutto quando oltre alla sofferenza del familiare, che diventa nostra, si aggiungono le continue sfide della burocrazia, non sempre sollecita nei confronti di chi soffre.

Per fare degli esempi…
Come non considerare tutti quei disabili o gli affetti da distrofia muscolare che necessitano di assistenza continua da parte dei familiari, nonché di farmaci urgenti e tuttavia proibitivi nei prezzi, che la cassa mutua ha, in alcuni casi, cessato di dispensare? Senza considerare il fatto che molte persone non hanno l’opportunità di concedersi uno svago, una serata di divertimento, perché costrette a casa dalla continua necessità di prestare assistenza al disabile. Perché la conseguenza della malattia è la fragilità in cui viene a trovarsi il malato con la famiglia. Una fragilità accentuata non solo da un sistema impreparato e inconsapevole, ma dall’intera società che valuta la malattia quasi come una condizione di cui vergognarsi. I genitori di un “figlio fragile” finiscono così per soffrire due volte: per la sua malattia, e perché è visto diverso anche dai coetanei.

Puoi dirci qualcosa della tua esperienza di madre?
La mia esperienza di madre di una ragazza con una grave forma di scoliosi, mi ha portato a dover cercare una struttura competente e preparata in un’altra città: Milano al “Don Gnocchi”. Il disagio non era tanto quello di prendere ogni tre mesi un aereo con mia figlia e stare via ogni volta non meno di una settimana, quanto piuttosto spiegare ad una bambina di dieci anni che doveva convivere con un busto ortopedico fisso per un tempo imprecisato.

Con la scuola?
Convincerla ad andare a scuola in quella situazione è stata la parte più difficile. Vederla piangere era un’angoscia indescrivibile. Il tempo passava ma l’obbligo di portare il busto continuava. E così ha dovuto rinunciare a tutte quelle situazioni che ogni adolescente aspetta. Niente gite scolastiche o mare con gli amici, aboliti top e abiti aderenti o scollati. A questo si aggiungevano i dolori e le continue emicranie.

Com’è riuscita a trovare un equilibro con sé stessa e la società?
Si è sempre impegnata a raggiungere gli obiettivi che si proponeva, non considerando più la sua situazione un handicap, o un limite. Le privazioni e le rinunce sono stati, anzi, stimoli per concentrarsi su obietti pratici da raggiungere.

Oggi?
Oggi è una giovane donna consapevole che dovrà subire un difficile intervento per correggere la schiena (altrimenti i problemi diventerebbero anche respiratori), ma che dopo la laurea magistrale in storia dell’arte progetta il suo futuro lavorativo sicura delle sue capacità. Io la guardo, attendo, ogni tanto piango, e prego. Ma tra noi due è sempre stata lei la più forte.

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