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Persona e famiglia > Felicemente

La rinascita psicologica dopo il trauma

di Davide Viezzoli

- Fonte: Città Nuova

Un evento traumatico ci fa esperimentare il “non-senso”, occasionandoci una profonda ferita. Nonostante, riuscire a ricostruire di significato la vita ci può aiutare a sperimentare cambiamenti positivi e trasformazioni significative

Foto Pexels

Ci sono momenti, nell’incontro con una persona che ha sofferto, in cui sentiamo l’impossibilità della comprensione. Questo accade quando l’orizzonte del proprio capire, nutrito dai propri vissuti, non trova niente di analogo o compatibile con l’esperienza che si ascolta. Un’esperienza che evidentemente va oltre, trascende cioè la generale significazione degli eventi che accadono attorno a noi; generalmente, definiamo un’esperienza di questo tipo – o più spesso, un insieme di esperienze simili – trauma o eventi traumatici.

L’incontro con il trauma è quindi questo: trovarsi faccia a faccia con il non-senso, con degli eventi che segnano una discontinuità temporale irreparabile e producono una catastrofe esistenziale. Come un foglio di carta teso e trapassato da una matita (dal greco τραῦμα, ovvero “trafittura”, “perforamento”), tutto ruota attorno alla ferita, che funge da attrattore risucchiando in un vortice presente e futuro: la dimensione prospettica, i piani per una vita, i sogni e anche le aspettative quotidiane si congelano in un orizzonte di non-senso. La dimensione percepita del tempo cambia quindi irreparabilmente. Se tale evento è iscritto in una dimensione relazionale, cioè è causato da un Altro (persona, gruppo o istituzione), allora a crollare è anche la fiducia nei confronti dei propri simili.

Possiamo certamente pensare a chi oggi sta vivendo una situazione di guerra, in Medio Oriente, in Ucraina, in Africa. Non possiamo però capire, quindi comprendere, usare le stesse coordinate di tempo, spazio e significato che quelle persone oggi vivono. E questo perché quelle coordinate, per loro, non esistono più. Il livello simbolico che permette alla maggior parte di noi di condividere un’esperienza, per loro è saltato, mentre nelle loro vite è entrato – traumaticamente, come da una perforazione – il reale esterno, troppo crudo per essere compreso e digerito simbolicamente.

Eppure, tanto nelle tragedie collettive quanto in quelle personali, esiste una speranza di rinascita psicologica, e questa risiede appunto nella ricostruzione del significato.

Viktor E. Frankl è stato uno psichiatra, nato in Austria in una famiglia ebraica. Durante la Seconda Guerra Mondiale, fu deportato ad Auschwitz e soprattutto a Dachau. La sua esperienza nei campi gli sconvolse per sempre la vita: dovette rinunciare alla sua carriera di giovane, brillante, psichiatra; nel campo morirono i genitori, il fratello e sua moglie; perse un manoscritto al quale stava lavorando da anni. Tuttavia, fu proprio da questa scomparsa di ogni orizzonte di identità personale e di senso valoriale che Frankl riuscì, anni dopo, a porre le basi per un nuovo modello psicologico basato sul significato, la logoterapia. Della sua esperienza scrisse nella testimonianza Dire sì alla vita, nonostante tutto. Uno psicologo nei lager (oggi edito come Uno psicologo nei lager, ed. FrancoAngeli).

Il termine “logoterapia” deriva dall’accezione di “significato” che Frankl diede al termine greco “logos”. Secondo Frankl, il desiderio di trovare un significato nella vita è universale e costituisce una delle forze fondamentali che guidano l’essere umano. Frankl si rese conto che, anche nelle circostanze più impensabili, come quelle vissute nei campi di concentramento, alcune persone riuscivano a trovare comunque un loro significato personale attraverso un movimento che lui definì di autotrascendenza, cioè l’indirizzarsi dell’essere umano oltre se stesso, verso qualcosa al di là della propria esistenza; gli internati nei campi con maggiori prospettive di sopravvivenza erano quelli proiettati verso il futuro, in cerca di un significato destinato a realizzarsi in tempi a venire.

Negli anni ‘90, due psicologi statunitensi introdussero il concetto di “Crescita Post Traumatica”. Con le loro ricerche in qualche modo confermarono le intuizioni di Frankl, perché si resero conto che le persone possono sperimentare cambiamenti positivi e trasformazioni significative dopo aver affrontato eventi traumatici. Invece di essere vincolati in modo permanente dalle ferite del passato, alcuni individui emergono più forti, più consapevoli e più adattabili. Tedeschi e Calhoun, questi i loro nomi, individuarono cinque componenti chiave di questa crescita:

  1. Maggiore significato alla propria vita, con focus sulle priorità e sulla spiritualità, aprendo la strada a nuove prospettive e scoperte personali.
  2. Relazioni più significative con gli altri. Le relazioni possono diventare fonti di forza e sostegno durante il processo di guarigione.
  3. La crescita post traumatica può portare a una maggiore fiducia nelle proprie capacità di affrontare le avversità. Le persone possono sviluppare un senso di autoefficacia e una nuova prospettiva sulla propria forza interiore.
  4. Ristabilire le priorità. Dopo un trauma, molte persone riesaminano le proprie priorità attuando un riorientamento verso obiettivi più autentici e significativi.
  5. Maggiore apprezzamento per le esperienze quotidiane, unito a uno sviluppo del senso di gratitudine per ciò che si ha.

Il percorso verso la crescita post traumatica e la logoterapia condividono un nucleo comune: l’essenza umana è capace di risorgere, rinascere e trovare significato anche nelle circostanze più difficili. Nel suo libro Homo patiens, alla domanda su chi sia l’essere umano, Frankl risponde così:

«Noi l’abbiamo conosciuto come forse nessun’altra generazione precedente; l’abbiamo conosciuto nel campo di concentramento, in un luogo dove veniva perduto tutto ciò che si possedeva: denaro, potere, fama, felicità; un luogo dove restava non ciò che l’uomo può “avere”, ma ciò che l’uomo deve essere; un luogo dove restava unicamente l’uomo nella sua essenza, consumato dal dolore e purificato dalla sofferenza. Cos’è, dunque, l’uomo? Domandiamocelo ancora. È un essere che decide sempre ciò che è».

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