Venezia e ancora Venezia, come nei quadri un po’ malinconici di Francesco Guardi. Gondole, canali, feste notturne per il re di Danimarca, cieli con voli d’uccelli, lagune con alberi mossi dal vento, interni fastosi di palazzi ma anche di ospizi umidi. C’è un risvolto poetico – nostalgico? – nel primo lungometraggio di Damiano Michieletto, e stupisce.
In fondo è una storia d’amore. Per la città certo, che nel ‘700 viveva una splendida decadenza, per la musica. E per la libertà.
La libertà sembra essere il timbro di un lavoro raffinato, anche sontuoso nei costumi, poetico nella fotografia, misurato nei dialoghi dal sapore teatrale, con una sceneggiatura rapida, incisiva. Interni a lume di candela di stampo caravaggesco, con riferimenti alle tele di un Gherardo delle Notti, di Le Nain e Georges De la Tour, ma pure gelidi e cupi.
Cecilia è un’orfana talentuosa, una violinista prodigio, innamorata della musica. Come tante altre ragazze orfane o abbandonate vive nell’Ospedale della Pietà, secondo una rigida disciplina. Alcune di loro sposeranno dei vecchi nobili o dei patrizi appena conosciuti e questa sembra sia anche la sorte di Cecilia. Le ragazze formano una orchestra d’archi buona, ma che diventa eccellente quando arriva don Antonio Vivaldi negli anni Quaranta, reduce da una carriera sfortunata, malaticcio e solo, posseduto dal demone della musica.
Lei cerca la libertà nella musica, le è data e tolta, ma troverà la sua via. Vivaldi cerca nella musica l’infinito in cui immergersi, nell’impossibilità di una vita “normale”: musica come libertà dell’animo. Due personalità che si incontrano, si capiscono: c’è affinità, forse un timido affetto, ma nulla più. Si incontrano casualmente di notte, mentre Cecilia scrive di nascosto lettere ad una madre che non conosce e lui vaga silenzioso, ma non più di due volte. Lui comporrà anche per lei musiche prodigiose. Il pubblico sarà entusiasta, perché la musica di Vivaldi fa piangere e trionfare, è emotiva e gloriosa. Vivaldi avrà il suo momento di fama, ma lei non ci sarà più e lui stesso, anni dopo, morirà solo.
La musica dunque è amore, è libertà. Michieletto inscena un melodramma che non è una biografia di Vivaldi, ma un racconto privo di retorica di un incontro fra due anime assetate di libertà. Michele Riondino è un Vivaldi incerto umanamente, talora cupo, altre volte immerso nella musica, dagli occhi profondi. Tecla Insolia è una Cecilia bella e ribelle, che prolunga la sua forza interiore nel violino ed è assetata di vita. Il cast variegato è convincente, preciso nei dettagli – perfetti i costumi – anche se la cadenza veneziana nei dialoghi sarebbe stato opportuno accentuarla meglio (Stefano Accorsi, duro ammiraglio, ha un accento “emiliano”).
La musica di Fabio Massimo Capogrossi reinventa Vivaldi con una misura giusta, naturalmente facendoci ascoltare l’originale del bellissimo concerto “la Primavera”, un canto alla possibilità di rinascere, sollevandoci dalla tristezza.