La parola alle armi, purtroppo

Il summit di Parigi ha dato il via alle operazioni militari contro il rais. Una sconfitta – forse a questo punto necessaria – per la diplomazia, per la pace, per la politica alta. La parola dolorosa di mons. Martinelli
Libia in fiamme

Nella sua voce c’è determinazione evangelica, timore per i “suoi” cristiani ma anche per «i fratelli libici», paura per un’escalation militare che non promette nulla di buono: «Quando parlano le armi, si è perduto il senso della prudenza e della sapienza», mi dice mons. Martinelli, vescovo di Tripoli. È in ansia anche per i cristiani di Bengasi, oltre che per quelli di Tripoli: «Non riusciamo più ad avere contatti con loro – mi spiega –, anche se per vie indirette abbiamo saputo che la comunità starebbe bene». Il timore che i raid aerei e i missili colpiscano duramente anche civili è concreta. «Qui a Tripoli ci sono i centri nevralgici della nazione libica, qui c’è la massima concentrazione di depositi di armi e di caserme».

 

Rievoca il 1986, mons. Martinelli, in occasione dell’attacco statunitense contro Gheddafi: «I voli radenti dei cacciabombardieri erano terribili, la morte era lì, tangibile. Temo che rivivremo momenti simili. È una sfida continua, ormai, in una tensione crescente». Preti e suore stanno bene, sono uno degli ultimi baluardi: l’ambasciata italiana ieri è stata evacuata, così come tutte o quasi le rappresentanze dei Paesi europei.

 

Mons. Martinelli si trova a dover fronteggiare anche una situazione al limite del sopportabile per i tantissimi immigrati – dell’Eritrea, della Somalia, dell’Etiopia, del Congo… – che si ammassano attorno alla chiesa cattolica in cerca di aiuto, di un conforto, di qualcosa da mangiare, «di una sicurezza che non possiamo assicurare loro». Questi immigrati, che in massima parte hanno perso il lavoro, e tanti di loro anche la casa, «sono i più poveri dei poveri, vorrei poter fare qualcosa per loro, ma oltre a dare qualche soldo non possiamo far granché. Tra loro ci sono anche dei musulmani immigrati, gente che non ha nulla. È gente mite, in fondo, sono coloro che ancora non sono riusciti a scappare perché non hanno i mezzi per farlo. Ripeto la parola degli apostoli rivolta a Gesù, di fronte alle folle affamate: “Cosa facciamo, maestro?”».

 

Dunque i rafale francesi, per primi, hanno cominciato a colpire. Poi gli inglesi, e i missili. Ci si è mossi con colpevolissimo ritardo – va detto –: la comunità internazionale, e l’Europa in particolare, non è riuscita a far nulla di veramente sensato e utile prima della risoluzione dell’Onu che ha autorizzato l’uso della forza. L’Europa avanza (o arretra?) come sempre, opera in ordine sparso. Il presidente Sarkozy osa parlare addirittura di grandeur! E invece bisognerebbe parlare della petitesse, della piccolezza, dell’incapacità europea di parlare con una voce concorde al Mediterraneo e al mondo. Si poteva mettere in atto per tempo un’operazione diplomatica possente, si poteva intervenire con misure deterrenti ben prima di quando non sia stato fatto.

 

Ora parlano le armi, una sconfitta per tutti, anche se le violenze delle truppe libiche rimaste fedeli a Gheddafi richiedevano un intervento. L’intransigenza senza senso di Gheddafi era nota – mons. Martinelli l’aveva detto sin dalle prime battute della crisi che non avrebbe mollato mai –, ma non si è riusciti a disinnescarla. E non c’è stata quell’operazione di grande respiro culturale che l’Europa avrebbe potuto intraprendere per dare un orizzonte condiviso alle grandi rivolte del mondo arabo, in particolare del Nord Africa.

 

Preoccupati di “riposizionarsi” per il dopo-Gheddafi (petrolio, risorse naturali, posizioni strategiche…), i governanti europei non hanno saputo che generare una gigantesca cacofonia. E ora il linguaggio intrapreso è quello delle armi: cosa penseranno dell’Europa le popolazioni nordafricane?

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