La pace in Siria dipende dall’unità della comunità internazionale

«Le armi non sono una soluzione al conflitto, soprattutto in un Paese dove ci sono tanti eserciti e tanti programmi diversi. Bisogna puntare al negoziato». Intervista a Pasquale Ferrare, esperto di relazioni internazionali

Dopo due anni di conflitto la Siria è ancora un paese sott’assedio. I negoziati non sembrano aver dato esiti risolutivi mentre per le strade si continua a morire per attentati e vendette. Abbiamo chiesto a Pasquale Ferrara, esperto di relazioni internazionali un commento sulla situazione del Paese e sulle possibili vie di soluzione.

L’Occidente ha dato una lettura della situazione siriana, legata alle transizioni arabe, ma è davvero così? Cosa sta succedendo in Siria?

«C’è stata, da parte dei Paesi occidentali, una corsa precipitosa e un po’ avventata a riconoscere l’esercito, anzi gli eserciti ribelli e una sorta di governo in esilio anche se non si sa bene quale. In realtà non si sono fatti i conti con la vita reale del Paese siriano, dove da una parte c’è l’esercito regolare che vuole conservare lo status quo e ha un unico intento:la repressione di tutto quello che non rientra nella governabilità e al contempo garantire la continuità del regime. Dall’altra poi ci sono varie formazioni che non hanno un centro coordinato e hanno varie agende di programmi estremamente differenziati: si va dalla liberalizzazione a progetto di islamizzazione della regione e quindi la situazione è molto complicata e quindi anche quando si parla di intervento non si capisce come dovrebbe avvenire dove, a favore di chi e per che cosa».

Che prospettive ci sono visto che i negoziati al momento non hanno portato ad alcun esito e i siriani sembrano un popolo abbandonato a se stesso?

«In tutta la regione mediorientale si sono movimenti interessanti. Dopo gli anni di gelo tra Israele e Turchia a proposito del caso della Flotilla (la nave che nel 2010 voleva portare aiuti umanitari e merci a Gaza), grazie alla mediazione di Obama c’è stato un riavvicinamento tra i due stati e questo vuol dire molto anche per la Siria, perché la Turchia, in passato aveva cercato di svolgere un ruolo di mediazione tra il governo di Tel Avivi e quello di Damasco  in relazione alle alture del Golan. Turchia e Israele desiderano che questa parte del mondo sia stabilizzata perché i turchi hanno in sospeso la questione dei rifugiati siriani e la situazione curda, mentre gli israeliani vorrebbero la fine del contenzioso per il Golan. Poi c’è il problema della leadership siriana e tutto il lavoro per la stabilizzazione del Libano. Ci sono questioni altrettanto importanti che ruotano attorno alla Siria e che possono avere influenze l’uno sull’altro».

Bisogna lasciare la parola solo alle armi?

«Gli interventi militari in questi casi provocano danni maggiori perché non c’è un esercito ben identificato o che costituisca una minaccia precisa. Quindi l’azione militare non è praticabile: rimane solo il negoziato. In queste situazioni di guerra civile di fatto si semina tanto odio e non è facile risanare il tessuto sociale. In queste situazioni bisognerebbe pensare assieme al piano di pace anche un piano di riconciliazione».  

Che strade si devono percorrere per far cessare il conflitto?

«In politica internazionale non esistono alternative al negoziato pur sapendo che può avere limitata efficacia, ma io non vedo alternative. Gli interventi militari? I critici delle istituzioni internazionali o dei negoziati propongono spesso, come alternativa, il  ricorso alle armi senza però aver chiaro cosa fare e verso chi usarle. Nel bene e nel male il negoziato resta l’unica strada purché ci sia una convergenza di tutti gli attori più importanti e nel caso della Siria sarà fondamentale il ruolo della Russia che non si è ancora espressa su un obiettivo comune. Il vero problema di queste crisi è che i paesi che stanno al tavolo delle trattative affrontano i problemi avendo come punto di riferimento  in primo luogo i propri interessi e non le soluzioni. Ad esempio finché non si troverà una soluzione al rapporto tra Iran e Israele l’area rischia di restare sempre destabilizzata e ancor di più se ci saranno interventi armati».

I politologi parlano di un piano sul Medio Oriente che punta a realizzare piccoli stati confessionali in lotta tra loro e quindi deboli. Cosa ne pensa?

«C’è anche questa proposta alternativa alla soluzione del problema, ma sono scorciatoie e vanno evitate. Non esistono certezze granitiche ma è solo il processo di pace che può portare ad una soluzione e questo è complesso e lungo e non abbiamo alternativa. L’unica cosa a cui dovremmo aspirare è che la comunità internazionale abbia obiettivi comuni, cosa che finora non è avvenuta. Non è il negoziato ad essere efficace, molto dipende dall’unità della comunità internazionale e degli attori più importanti: questa è la precondizione su cui prospettare qualsiasi soluzione».

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