«La musica è la mia parola»

Suona una ventina di strumenti, ha ricevuto parecchi premi prestigiosi e composto opere originali per orchestre sinfoniche in Brasile ed Europa. André Mehmari, brasiliano di 36 anni, si racconta a Città Nuova
Andre Mehmari

L’uso dei  superlativi non è frequente nella mia penna (adesso bisogna dire: computer), ma questa volta devo dire che André Mehmari, 36 anni, è un fenomeno musicale. Me ne aveva parlato suo padre in Brasile, nei nostri discorsi fra amici, ma non era mai riuscito a farmi incontrare con lui. Ci è voluto il Festival Brasil in settembre a Roma all’Auditorium Parco della Musica, al quale è stato invitato con altri artisti, come Toquinho, Yamandu Costa, Zeca Baleiro.
Ha dato un concerto per piano solo, in dialogo col pubblico: aveva distribuito una lista di una sessantina  di canzoni brasiliane e qualche classico: i presenti indicavano le loro preferenze e André eseguiva con arrangiamenti personali di grande creatività e virtuosismo. Dava l’impressione di giocare con lo strumento, tanta era la naturalezza e la confidenza con cui lo trattava.
Ho capito quello che mi diceva suo padre e che avevo letto di lui: suona una ventina di strumenti, ha ricevuto parecchi premi musicali prestigiosi, ha composto opere originali per orchestre sinfoniche in Brasile e Europa, sue composizioni sono state eseguite da Milton Nascimento e dalla grande pianista portoghese Maria João Pires. Ha inciso più di dieci CD, solo o con altri artisti. Prima del concerto ho avuto la fortuna di incontrarmi personalmente con lui in un ristorante e abbiamo chiacchierato.

Sei stato un musicista precoce...
«Mia mamma, che suonava piano, chitarra e fisarmonica, è stata la mia prima maestra. A otto anni sono entrato in un corso di organo elettronico, che negli anni '80 era lo strumento di moda. Avevano scoperto che avevo molto orecchio, mettevo dischi sul giradischi, poi suonavo quelle musiche al piano e le imparavo a orecchio. A undici anni già suonavo nei bar o in feste di matrimonio. Ho cominciato da adolescente a studiare il piano con vari insegnanti della città; ero un po’ indisciplinato, perché mi piaceva improvvisare. Con questo mi sono precluso la possibilità di fare la carriera di concertista classico. Ma mi ha permesso di sintetizzare nella mia musica molti generi musicali, per via di quella tensione fra classico, tradizionale e jazz che si è rivelata in quel tempo. A 18 anni mi sono iscritto alla scuola di musica della USP (Università di São Paulo), per studiare musica classica. Arrivando a São Paulo, però, sono stato subito assorbito da impegni di lavoro: ho cominciato a comporre musiche per film, arrangiamenti e così ho impiegato un po’ di tempo per ottenere il diploma».

Come reagisce il pubblico alla tua musica?
«La musica è la mia parola. C’è chi parla scrivendo, dipingendo, io lo faccio suonando. Suono per pubblici molto diversi, dal Nord-est del Brasile alla Norvegia, al Giappone, gli Stati Uniti, all’Europa. Allo stesso tempo sperimento che la musica è un linguaggio universale; bisogna provarlo in concreto. Per esempio, tu vedi uno spettatore giapponese che si emoziona nel momento in cui tu suoni pensando alla tua vita quotidiana, al tuo ambiente del Brasile. Non è vero che loro non ti capiscono, quando tu sai suonare con una buona padronanza dell’espressione musicale, la musica parla a tutti. A questo livello io ricevo una risposta emotiva dall’ascoltatore. Per mia gioia ho trovato tanti che mi ringraziano per la mia musica, perché rende migliore la loro vita. È l’elogio migliore che si possa ricevere. Ci sono persone che mettono la mia musica come sveglia: la amano con carinho (affetto)».

Piace a persone di tutte le età?
«Tutte. Dai bambini alle persone anziane. E a persone con i gusti più diversi. Non solamente gli appassionati di jazz; ai miei concerti vengono persone che frequentano altri generi di musica. Il mio pubblico è molto diversificato».

Tu suoni vari strumenti.
«In casa avevo l’esempio di mia madre, che suonava vari strumenti, per cui vedevo che era naturale passare da uno strumento a un altro. Da piccolo suonavo già chitarra, flauto, piano, organo. Poi mi sono esteso al violino, viola, fisarmonica, clavicembalo con cui suono musica barocca, strumenti di percussione. Questo mi aiuta molto, perché, per esempio, suonare strumenti a corda mi aiuta a comporre per orchestra. E siccome compongo molte musiche per film, suonare vari strumenti mi aiuta ad avere una maggiore varietà sonora».

Hai molti rapporti con altri musicisti?
«Faccio molte collaborazioni importanti: ho inciso un duo con voce o strumenti. Ho avuto la possibilità di lavorare con grandi cantanti e musicisti: Ná Ozzetti, Hamilton de Holanda, Mario Laginho, un grande pianista portoghese col quale ho appena lanciato un disco. Nel mio menu musicale ho dal piano solo fino a lavori con grande orchestra».

Come senti l’esperienza con altri?
«È come un colloquio aperto, ma il linguaggio è la musica. Per la mia curiosità musicale sono totalmente aperto a ciò che l’altro fa. Non sono un tipo di musicista che vuole imporsi agli altri, che passa al disopra degli altri, io mi metto nell’atteggiamento di ascoltare e completare, anche come uomo. È uno scambio, si impara molto in questo dialogo. Come  in una conversazione, io parlo e tu mi dai un’informazione che io non sapevo, così nella musica. E questo linguaggio, che include la creazione, l’improvvisazione offre molta apertura in questo scambio immediato».

Hai avuto difficoltà, momenti difficili?
«Si può immaginare che questa traiettoria non è stata facile, difficoltà ci sono tutti i giorni, tutte le professioni ne hanno. Ma la musica mi dà molti più compensi positivi che problemi. Per esempio, per la mia ampia area di attuazione a volte capita che nello stesso giorno io suono la mia musica, altri in Brasile ed altri ancora fuori del Brasile».

Qual è il ruolo della musica in un Paese come il Brasile, con tutti i gravi problemi sociali, economici, la sperequazione che conosciamo?
«È di realizzare l’identità culturale, la musica unisce il Paese. Un Paese non è unito dalle frontiere, l’esercito non ne garantisce l’integrità territoriale, ma la cultura. È vero che ogni città ha la sua cultura molto forte, con i suoi accenti regionali, ma è molto integrata. Se suoni un baião (ritmo nordestino) a São Paulo, contagia come nel Nordest. La canzone brasiliana è rispettata in tutto il mondo e dovunque si parla di essa, quasi  più che in Brasile. Ci sono musicisti brasiliani di grande valore e rispettati e in qualunque luogo del mondo sono simbolo di creatività».

Mi hai detto prima che la musica eleva verso il trascendente. La musica religiosa?
«Tutta la musica buona per me è religiosa, anche se non ha un tema religioso. La musica fatta con passione, con l’anima, con dedizione, lega – nel senso latino della parola religione – la persona con qualcosa di essenziale, che si può chiamare Dio nel significato che ognuno gli può dare secondo la sua fede, lega a qualcosa che è più grande della stessa persona, che è la trascendenza. Questo vale per l’arte in generale, ma credo che la musica, perché prescinde dalle parole, da certi elementi terreni, abbia un linguaggio universale, forse il più universale di tutte le arti, e trasmetta un messaggio presente in ogni cultura. La musica contribuisce a salvare l’umanità sulla Terra. In mezzo a tante calamità, guerre, incomprensioni la musica unisce molto. Si vedono musicisti di Paesi in guerra che suonano insieme e parlano un linguaggio comune, di totale comunicazione, di scambio e di valorizzazione dell’altro. Questo per me è molto nobile».

I più letti della settimana

Tonino Bello, la guerra e noi

Mediterraneo di fraternità

La forte fede degli atei

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons