La morte non può essere rimossa

Siamo tutti in relazione, e questa è, letteralmente, questione di vita o di morte.
Foto Claudio Furlan - LaPresse

Dopo la crisi terroristica del 2001 e quella finanziaria del 2008 abbiamo sperimentato, con l’emergenza Covid-19, una crisi sanitaria globale. Mai come in questo caso l’effetto-farfalla di Lorenz si è manifestato in tutta la sua concretezza: uno starnuto a Wuhan, in Cina, ha scatenato una pandemia globale e ha causato la prima esperienza prolungata e simultanea di confinamento planetario.

Mai come in questo momento è parso evidente che «nessun uomo è un’isola», come cantava John Donne e che, al contrario, il destino di ciascuno è legato a quello degli altri. Vita tua, vita mea è uno degli insegnamenti del tempo che stiamo attraversando. Il virus ha reso evidente come l’infrastruttura connettiva della nostra quotidianità globalizzata non accelera solo gli spostamenti e le comunicazioni, ma anche la diffusione dei patogeni. E ci ha mostrato che, a differenza delle connessioni tecniche, quelle interumane non possono essere interrotte: siamo tutti in relazione, e questa è, letteralmente, questione di vita o di morte.

Il Covid ha anche dato uno schiaffo alla tracotanza tecnocratica: si è manifestato infatti nel modo più drammatico proprio nel cuore della parte più sviluppata del Paese, mettendo in ginocchio quello che si autodefinisce il sistema sanitario più avanzato d’Italia e forse d’Europa. Ciò che ha consentito di “reggere”, alla fine, sono stati i legami di prossimità, sollecitudine e cura tra le persone, più che le meraviglie della tecnica. Una interconnessione prima di tutto antropologica. Non revocabile. Abbiamo anche capito che il “virtuale” è molto “reale”, quando è l’unica occasione di stare in contatto coi propri cari.

Tante rivelazioni grazie a questo virus. Ma quello che ci ha investito con più forza è lo shock di capire che la morte non può essere rimossa. È nostra compagna di viaggio quotidiana. Non è il contrario della vita, ma la sua altra faccia. Come scriveva Umberto Saba, «è il pensiero della morte che, alla fine, aiuta a vivere». A ridefinire le priorità, a discernere ciò che conta davvero. A renderci conto che siamo fragili e che scienza e tecnica non regalano la salvezza che ci promettono.

Questa però è anche una buona notizia. Abbiamo infatti sperimentato che non possiamo fare a meno gli uni degli altri. Per questo ci si affacciava al balcone per chiacchierare con quel vicino di cui in tempi “normali” non sapevamo neppure il nome; o i giovani sono andati a fare la spesa per gli anziani. Da chi si è sacrificato abbiamo imparato cosa significa la frase del Vangelo su trovare la propria vita e perderla, e sulla differenza tra sicurezza (la mia incolumità fisica individuale) e salvezza (una pienezza di vita che è per tutti).
Quello che abbiamo imparato, sulla nostra pelle, può essere un nuovo inizio, se vogliamo. Non facciamo che le morti siano state vane.

Chiara Giaccardi è professore ordinario di Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università Cattolica di Milano

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