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Cultura > Itinerari

La Grande Guerra vista dal Sud Tirolo

di Oreste Paliotti

- Fonte: Città Nuova

Sette volte bosco è il titolo del libro di Caterina Manfrini, prova narrativa di una giovane antropologa trentina sui risvolti della Grande Guerra fra la popolazione civile del Sud Tirolo.

Caterina Manfrini, foto propria

Il titolo del romanzo di esordio di Caterina Manfrini, Sette volte bosco edito da Neri Pozza, riprende l’antico adagio cimbro «Sette volte bosco, sette volte prato… e tutto tornerà come è stato». Usato per indicare la continuità della vita e le trasformazioni cicliche della storia e della natura, questo proverbio della cultura montana trentino-veneta è stato scelto dall’autrice, giovane antropologa originaria di Rovereto, quale chiave per interpretare una vicenda ambientata all’epoca della Grande Guerra in una terra contesa e dai fragili confini come il Sud Tirolo, in cui è vivo il desiderio di appartenenza.

Protagonista di questa storia cruda ma rivissuta con poesia è Adalina (Lina), rientrata in Val Terragnolo – un’area montuosa del Trentino orientale – da Mitterndorf, il campo dei profughi sudtirolesi inglobato nel fronte bellico, dopo un terribile anno durante il quale le sono morti i genitori. È tornata al maso di famiglia, che ritrova in parte crollato, in parte annerito dai fuochi degli occupanti abusivi. Quanto a Emiliano, il fratello partito soldato per un impero che si è sbriciolato, non riceve sue notizie da mesi. Ma non solo la sua famiglia, sono cambiati i confini, la lingua; montagne e boschi non sono più gli stessi, dilaniati dai bombardamenti, depredati e spogli.

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Il libro Sette volte di Caterina Manfrini, foto dell’autrice

dalina però ha coraggio da vendere. Sa che la vita è fatta di tristi inverni come pure di primavere rigogliose, e ora è giunto il tempo di ricominciare, di curare le ferite del corpo e dell’anima. Anche per amore di Emiliano, che tornerà dalla guerra – lei ne è certa – e non deve pensare che la sorella si sia mai arresa. Così si dà da fare per rimettere in sesto casa e orto abbandonati, per raccogliere – memore degli insegnamenti materni – erbe selvatiche da cui ricavare decotti e unguenti da vendere poi a San Nicolò, la frazione nel fondovalle irrigato dal torrente Leno, sede di leggendarie creature acquatiche. Col ricavato, prima o poi potrà permettersi qualche gallina e qualche capretta.

Un giorno però qualcosa cambia nella sua quotidianità così faticosamente riconquistata. Nel maso si è intrufolato Stefan, un misterioso giovane ferito che parla solo tedesco: un kaiserjäger come Emiliano, ossia un fante dell’esercito austro-ungarico reclutato nel Tirolo e scappato dal Pasubio prima della fine dei combattimenti. In tal caso anche lui ora, al pari del fratello, si trova dalla parte sbagliata del confine.

Mi fermo qui per non svelare il seguito di questa narrazione che riserva anche momenti di suspense e per intervistare l’autrice, iniziando dal perché della scelta di un tema da noi ancora poco conosciuto, come la sorte dei reduci del Sud Tirolo dai territori dell’Impero a guerra conclusa.

«Il romanzo è nato da un mio desiderio di raccontare una storia che parlasse “a tutto tondo” della Grande Guerra nel Tirolo meridionale. Volevo toccare non solo esperienze militari, già più conosciute, ma anche esperienze civili. La guerra in quegli anni e in queste zone, definite nere perché nel cuore del conflitto, ha portato intere comunità a spostarsi: gli uomini sui fronti, prima su quello orientale, poi su quelli di montagna; le donne, gli anziani e i bambini sfollati, chi in Italia, chi, come i miei protagonisti, altrove nell’Impero, nei campi profughi o nelle regioni di Boemia e Moravia. Sono vicende complesse e spesso rimaste ai margini della Storia. Credo sia molto importante parlarne, soprattutto in periodi altrettanto complessi come il nostro».

Quali vie ha seguito per documentarsi? Ha incontrato particolari difficoltà? Inoltre, dal rilievo dato loro nel romanzo, lei dimostra una conoscenza diretta dei luoghi, della flora e della fauna…

«Qui in Trentino è “semplice” immergersi nella memoria della Grande Guerra. È sufficiente fare una camminata tra le nostre montagne e, con un po’ di attenzione, si possono trovare le tracce e le cicatrici del territorio. Io ho cominciato così. Ci sono poi tanti testi, di ricerca e di memorie, molto completi e commoventi che descrivono davvero con minuzia quel periodo, e questo mi ha aiutata nella stesura del libro. Anche l’osservazione attenta di fotografie d’epoca mi è servita per mettere a fuoco dettagli che altrimenti non avrei potuto cogliere.

La mia formazione da antropologa mi ha sicuramente spinta a cercare di descrivere i luoghi delle vicende in maniera “completa”, a partire per esempio dalle piante e dalle leggende che circondano Terragnolo, la valle a cui ritornano Adalina ed Emiliano. Terragnolo è un posto che io amo molto e che nasconde tante piccole ricchezze, sia dal punto di vista botanico, sia dal punto di vista culturale e linguistico, con affascinanti figure del folklore e della tradizione montana e cimbra».

Recente è la pubblicazione del suo romanzo. Dagli echi raccolti cosa le ha dato più soddisfazione sentirsi dire?
«Il libro è uscito nel mezzo dell’estate e molti lettori e lettrici hanno avuto occasione di cominciarlo durante le vacanze. È molto emozionante cominciare a raccogliere i primi pareri e pensieri sulla storia. Adalina sembra essere il personaggio più amato, per il momento. Sono molto contenta anche dell’interesse per il periodo storico e per le vicende dello sfollamento verso i campi profughi, sconosciute a tanti. Soprattutto, forse, mi fa piacere che la montagna stia venendo apprezzata come protagonista delle vicende – nel processo di scrittura, io la vedevo così».

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