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La grande chiazza di rifiuti del Pacifico dà origine a un nuovo ecosistema

di Edison Barbieri

- Fonte: Città Nuova

L’inquinamento da plastica sta creando un nuovo ecosistema marino nell’oceano aperto, dove specie costiere riescono a stabilirsi e completare i loro cicli vitali sui detriti galleggianti. Questo fenomeno altera le dinamiche naturali e favorisce la dispersione di specie esotiche invasive

Un sacchetto di plastica che galleggia nell’oceano. Foto di Naja Bertolt Jensen da Unsplash.

La grande chiazza di rifiuti del Pacifico, situata tra la California e le Hawaii, negli Stati Uniti, non è più soltanto il simbolo estremo dell’inquinamento degli oceani. Studi scientifici recenti indicano che questa vasta area, un tempo considerata quasi priva di vita a causa dell’assenza di substrati naturali, sta progressivamente trasformandosi in un ambiente capace di sostenere comunità biologiche complesse. I ricercatori hanno infatti documentato la presenza stabile di numerosi organismi marini che, fino a pochi anni fa, erano ritenuti confinati esclusivamente agli ecosistemi costieri.

Questa regione fa parte del giro subtropicale del Pacifico settentrionale, un sistema di correnti oceaniche che intrappola per lunghi periodi materiali galleggianti, favorendone l’accumulo. In tale contesto, l’elevata concentrazione di plastica ha introdotto nell’oceano aperto un elemento strutturale del tutto inedito. Reti da pesca, contenitori, frammenti rigidi e altri detriti plastici offrono superfici dure e persistenti che funzionano come vere e proprie piattaforme ecologiche, consentendo l’adesione, la crescita e la riproduzione di specie che, in condizioni naturali, difficilmente avrebbero trovato habitat idonei in alto mare.

Ciò che rende questo fenomeno particolarmente rilevante dal punto di vista ecologico è il fatto che molte di queste specie non sono semplicemente trasportate passivamente dalle correnti, ma sembrano essersi effettivamente stabilite nel nuovo ambiente. Sono state osservate comunità composte da organismi di diverse dimensioni e stadi di sviluppo, suggerendo la presenza di cicli vitali completi che si svolgono direttamente sui rifiuti plastici. Questo scenario indica l’emergere di un ecosistema di origine antropica, nel quale specie tipicamente litoranee convivono con organismi pelagici, modificando le dinamiche ecologiche tradizionali dell’oceano aperto.

Mappa della Grande Chiazza di Rifiuti del Pacifico. Immagine di pubblico dominio da Wikipedia.

Una “nuova casa” per le specie costiere

Durante recenti spedizioni nel cuore dell’Oceano Pacifico, i ricercatori hanno raccolto oltre cento frammenti di plastica di dimensioni superiori ai 15 cm. Praticamente su ciascun oggetto erano presenti organismi aderenti alle superfici. Tra le specie più frequentemente osservate figuravano balani, granchi, anemoni e idroidi, organismi tipici delle scogliere rocciose costiere e che, fino a poco tempo fa, si riteneva non fossero in grado di sopravvivere in mare aperto.

Nel complesso sono state identificate 46 specie, la grande maggioranza delle quali di origine costiera. Questa scoperta conferma che tali organismi non vengono soltanto trasportati dalle correnti, ma riescono a stabilirsi e a persistere in un ambiente che, teoricamente, non offrirebbe le condizioni necessarie al mantenimento di popolazioni stabili.

Evidenze di cicli vitali completi

Le analisi di laboratorio hanno fornito ulteriori elementi a sostegno di questa interpretazione. I ricercatori hanno individuato femmine con uova e gruppi di individui di dimensioni diverse che condividevano lo stesso frammento di plastica. Ciò indica che gli animali stanno completando l’intero ciclo vitale direttamente sui rifiuti galleggianti, ovvero nascendo, crescendo e riproducendosi in mare aperto, e non semplicemente arrivandovi in modo accidentale.

Reti, corde e frammenti di plastica rigida funzionano quindi come piccole piattaforme galleggianti, offrendo riparo e superfici di ancoraggio. Questo tipo di ambiente favorisce in particolare specie caratterizzate da elevata capacità riproduttiva e rapida colonizzazione, contribuendo alla stabilizzazione delle comunità biologiche associate ai rifiuti.

Un nuovo ecosistema nel pieno dell’oceano

La presenza costante e duratura di plastica ha trasformato un’area tradizionalmente povera di substrati solidi in un ambiente in grado di sostenere intere popolazioni di organismi. Gli scienziati descrivono questo scenario come un possibile nuovo ecosistema, nel quale specie tipiche dell’alto mare convivono con organismi che, in condizioni naturali, dovrebbero essere limitati alle zone costiere.

Questa trasformazione suscita serie preoccupazioni, poiché la presenza di specie costiere a migliaia di chilometri dal loro habitat naturale può alterare le catene alimentari, generare squilibri ecologici e facilitare l’insediamento di specie invasive in regioni che, in passato, erano protette dall’isolamento geografico.

Oltre l’inquinamento: la plastica sta rimodellando gli ecosistemi

Lo studio pubblicato sulla rivista Nature Ecology and Evolution dimostra in modo convincente che l’impatto dell’inquinamento da plastica va ben oltre il semplice accumulo di rifiuti o il rischio diretto di ingestione da parte degli organismi marini. La plastica deve ormai essere considerata un vero e proprio agente ecologico attivo, capace di modificare processi biogeochimici, schemi di distribuzione delle specie e interazioni trofiche. In questo senso, l’inquinamento plastico non rappresenta una pressione antropica passiva, ma una forza strutturante che interviene profondamente nel funzionamento degli ecosistemi marini su scala globale.

I materiali plastici più resistenti e galleggianti creano strutture artificiali persistenti che fungono da substrato per l’insediamento di organismi marini. In regioni oceaniche tradizionalmente prive di superfici solide, come l’alto mare, questi rifiuti introducono un elemento completamente nuovo, consentendo la formazione di comunità biologiche complesse in ambienti dove, dal punto di vista ecologico, ciò sarebbe stato improbabile o addirittura impossibile. Tali comunità non sono effimere, ma mostrano segnali di stabilizzazione e continuità nel tempo, consolidandosi anno dopo anno grazie alla longevità del materiale plastico.

A mio avviso, questa dinamica rappresenta una delle trasformazioni più profonde e inquietanti indotte dall’attività umana sugli oceani. La plastica sta contribuendo a una progressiva artificializzazione degli habitat marini, alterando i confini tra ecosistemi costieri e pelagici e creando nuovi nicchi ecologici di origine antropica. Questo processo solleva interrogativi fondamentali per l’ecologia e la conservazione, poiché tali nuovi ecosistemi possono favorire specie opportuniste, facilitare fenomeni di bioinvasione e compromettere l’equilibrio di sistemi naturali che si sono evoluti nel corso di millenni.

Il pericolo dell’introduzione di specie esotiche aderenti alla plastica

L’introduzione di specie esotiche rappresenta uno dei rischi ecologici più sottovalutati associati all’inquinamento marino, in particolare quando mediata dai rifiuti plastici galleggianti. Frammenti di plastica, macrodetriti e persino oggetti interi agiscono come vettori artificiali di dispersione biologica, offrendo un substrato stabile per la fissazione di alghe, invertebrati e microrganismi. A differenza dei vettori naturali, come tronchi o tappeti di macroalghe, la plastica presenta un’elevata durabilità, una notevole galleggiabilità e la capacità di percorrere lunghe distanze, attraversando oceani e collegando ecosistemi che, dal punto di vista evolutivo, non sono mai stati in contatto diretto.

Un esempio emblematico di questo fenomeno risale al 1992, quando circa 28.000 anatre di gomma e altri giocattoli di plastica caddero da un container nell’Oceano Pacifico. Trasportati dalle correnti oceaniche, questi oggetti raggiunsero nel corso degli anni le coste dell’Alaska, del Nord America e persino dell’Europa. Sebbene possa apparire un episodio banale, esso dimostrò in modo inequivocabile il potenziale della plastica galleggiante come strumento involontario di tracciamento delle correnti marine e, soprattutto, come piattaforma di rafting biologico capace di trasportare organismi vivi per migliaia di chilometri.

Dal punto di vista ecologico, questo tipo di trasporto costituisce una minaccia concreta per la biodiversità, poiché facilita l’introduzione di specie esotiche e potenzialmente invasive in ambienti costieri e insulari. Tali specie possono competere con gli organismi nativi, alterare le catene trofiche, introdurre patogeni e modificare processi ecosistemici fondamentali. A mio giudizio, ciò rafforza l’urgenza di integrare l’inquinamento da plastica nelle discussioni sulle bioinvasioni, sulla gestione costiera e sulla conservazione marina, riconoscendo la plastica non solo come contaminante fisico-chimico, ma come un potente agente di trasformazione biogeografica su scala planetaria.

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