Biblioteche intere sono state scritte negli ultimi anni sulla crisi della democrazia; sul bisogno di ri-semantizzare la partecipazione, cioè ridare senso compiuto e aggiornato al sistema di gestione della vita sociale; sull’imperativo di arginare il conflitto di interessi che pervade le base della nostra democrazia; sulla volontà di arginare quella legge della giungla che scalza la legge del rispetto e impedisce che vengano assicurati a ognuno i propri diritti. Ognuno dei nostri lettori penso e spero che abbia da dire qualcosa al riguardo.
In questi giorni, mi sono trovato per tre volte a esercitare il diritto del voto: per partecipare alle elezioni dei rappresentanti del CdA (Consiglio di Amministrazione) di una fondazione; per eleggere i soci di un’associazione; per scegliere i membri di un movimento che comporranno i suoi organi di governo. Dimensioni diverse, importanza diversa, da poche unità a qualche centinaio di migliaia circa di membri. Eppure, nonostante la diversità del tipo di elezione, nonostante le implicazioni in gioco, egualmente ho potuto provare gli stessi sentimenti e le stesse motivazioni, che possono sostanzialmente essere riassunti in un’espressione: «Voto, quindi siamo». Non «voto, quindi sono», ma «voto, quindi siamo». La traslazione dalla prima persona singolare alla prima persona plurale indica tutta la sacralità della democrazia, e nello stesso tempo la sua necessità.
L’atto di votare è in effetti la possibilità che ci viene offerta di dire la nostra, di esprimere il nostro dissenso, di condividere il pensiero e l’azione altrui. E nello stesso tempo mettere la scheda in un’urna o votare premendo qualche tasto sul telefonino vuol dire capire l’uguaglianza fondamentale e irriducibile di noi umani. C’è dunque una sorta di “professione di fede” nella libertà, nel senso che tutti condividiamo delle regole e facciamo in modo di applicarle senza costrizioni e nella convinzione di contribuire così al bene comune; c’è una speranza, quella dell’eguaglianza, cioè siamo tutti uguali e siamo tutti capaci di partecipare allo stesso bene comune e di implementarlo; e c’è l’attenzione di coloro che cercano di ascoltare, di concretizzare, di avanzare sulla via della fraternità, terzo incomodo della rivoluzione francese.
Il “sale della democrazia”, cioè il voto, risiede nella capacità di un confronto autentico e libero, anche se talvolta schietto, tra opinioni che possono chiaramente essere diverse. Questo dialogo costante impedisce alla democrazia di ridursi a un guscio vuoto, limitato al solo passaggio elettorale. Votare è di più, molto di più. Non è solo un principio etico, ma anche politico. La fraternità non annulla il conflitto o la diversità, ma li inserisce in una cornice di reciproco riconoscimento e rispetto. La fraternità si manifesta nell’impegno di spogliarsi dei preconcetti, favorendo l’ascolto e la ricerca della verità insieme agli altri, anche con chi la pensa diversamente. Agire con fraternità significa riconoscere la pari dignità di ognuno di noi, una persona un voto, cogliendo il valore dell’alterità altrui e ponendo il bene comune al di sopra degli interessi di parte.
Anche nella semplici elezioni per un’assemblea associativa, quindi un esercizio in fondo privato, si entra in gioco con le proprie capacità e le proprie visioni. Come diceva Roosevelt, «il diritto di voto è sacro e il cittadino deve usarlo»; infatti, non è solo un diritto, ma un dovere civico che assicura una parcella di sovranità popolare, anche in un dettaglio come una qualche piccola associazione. Ogni votazione, pur piccola, può abbracciare l’intera umanità, come lasciava intendere Gandhi: «Sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo». Votare è democrazia. Ed è di più.