La Fiat ha bisogno di un colpo d’ala

Davvero Marchionne ed Elkann dimenticheranno gli aiuti che lo Stato ha dato all'azienda in passato, decidendo sul futuro delle aziende italiane solo in base a utili e perdite?
marchionne

Quando gli azionisti Fiat hanno separato in diverse aziende le attività industriali e quelle dell’auto, e queste ultime hanno acquisito la maggioranza di Crysler, è stato evidente che i soci avevano scelto una strategia internazionale.

 

L’autentico crollo delle vendite, per colpa della droga degli incentivi degli anni passati e del persistere della crisi, ha portato adesso Marchionne ad annunciare come non più realistico l’investimento di venti miliardi del progetto Fabbrica Italia, e a sostenere che sta utilizzando i profitti derivati dalle produzioni nel continente americano per coprire le perdite di quello europeo: in pratica aspetta che “passi 'a nuttata” e non introduce i nuovi modelli che tutti chiedono, per evitare di “bruciarli” in anni di crisi.

 

Gli italiani e i lavoratori della Fiat non accettano questo gioco solo in difesa senza alcun tentativo di contropiede; non accettano che non si parli di sostituire Fabbrica Italia con un progetto magari più modesto, ma che dimostri che l’azienda punta ancora in modo privilegiato all’Italia; la presente inazione dimostrerebbe invece che gli insediamenti italiani valgono solo in base alle loro perdite o ai profitti, alla pari di tutti gli altri.

 

Un comportamento, quello del management Fiat, che sembra dimenticare quanto la comunità nazionale abbia contribuito in passato alle fortune dell’azienda, identificate come quelle del Paese; sembra dimenticare che ad essa per molti anni è andata una parte considerevole dei fondi pubblici dedicati allo sviluppo del Mezzogiorno e anche molti di quelli per la ricerca e l’innovazione, che sono stati utilizzati nella costruzione di interi stabilimenti che di innovativo avevano poco più del fatto di essere nuovi.

 

Gli italiani ricordano anche che il privilegiare la Fiat ha significato anche segnare profondamente il futuro del Paese, rinunciando ad investire in una moderna rete ferroviaria per asfaltare invece i campi italiani con una rete autostradale su cui far correre le sue automobili ed autotreni, inquinando e contribuendo all’effetto serra. Scelte che hanno prodotto ricchezza e posti di lavoro, ma anche assistenzialismo, quando la Fiat è entrata in crisi e i finanzieri che l'hanno soccorsa le hanno imposto come manager uno di loro; Cesare Romiti però, invece di puntare sull’automobile, si è dedicato soprattutto a costruire un impero industriale in altri settori di esito non felice, approfittando delle privatizzazioni di aziende pubbliche e utilizzando soldi altrui.

 

Per anni non si è più coltivato il valore vero dell’azienda, quei saperi condivisi, il genio di quel gruppo di ingegneri e tecnici torinesi che per decenni, a partire dalla mitica Cinquecento, era stato capace di creare le automobili che gli automobilisti volevano.

 

Che forza di convinzione possiede oggi il governo italiano verso la Fiat? Come sanno i ministri Passera e Fornero chiamati a interpellarla in nome del lavoro, non vi sono argomenti legalmente validi per obbligarla ad agire diversamente: impegni in questo senso andavano definiti quando per la Fiat si facevano così tanti sacrifici da essere grati del fatto che di Fiat ce ne fosse una sola: ed essi devono ricordarsene, se finiranno in qualche modo per aiutarla ancora. Esiste solo quel dovere morale che altri imprenditori stanno sollecitando nella famiglia Agnelli, toccando un tasto a cui non sono sensibili i manager, che non pensano di dover avere una memoria storica, ma a cui dovrebbero essere sensibili i proprietari; la famiglia Agnelli, questa, segnata dalla morte prematura di chi era stato designato a rappresentarla nella nuova generazione, soffre oggi l’assenza di un vero capo carismatico in grado di aggregare tutti attorno a sé, e probabilmente soffre dell’inevitabile sgretolamento dell’azionariato che avviene con il passare delle generazioni; si formano tanti azionisti che, sentendosi minoranza, sono portati più a considerare i loro interessi particolari che quelli complessivi dell’azienda.

 

Chissà che l’attuale giovane responsabile dell’azienda, memore della statura dei suoi predecessori, non trovi in sé il coraggio e la forza morale di portare tutti i soci alla determinazione di un colpo d’ala per il futuro dell’azienda: al di là della razionalità del manager.

 

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