La corsa non finisce mai

Lo sport italiano è in lutto: se n’è andato a sessant’anni Pietro Mennea, la “freccia del Sud”. Una vita da campione sempre in pista al servizio dello sport
Pietro Mennea

La notizia rimbalza sulle agenzie di stampa poco dopo le dieci, l’ora del caffè: si è spento a Roma in una clinica Pietro Mennea, grande atleta e velocista azzurro, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Mosca 1980 nei 200 metri. Il giornalista di Rai Sport è costretto ad interrompere la diretta del palinsesto mattutino. Guarda in basso, cerca aiuto dalla regia, deglutisce, poi rivela agli spettatori la notizia, una di quelle che nessuno avrebbe mai desiderato annunciare.

Pietro Paolo Mennea, nato a Barletta in provincia di Bari il 28 giugno 1952, se n’è andato presto, così come presto era arrivato. In punta dei piedi, senza incanto né vanto. In punta dei piedi Mennea correva, spingeva, vinceva, regalava emozioni, marcava la storia. Programmate ed inaspettate sono state le sue vittorie più belle. Lo davano tutti per spacciato a Mosca 1980 quando all’imbocco del rettilineo finale navigava nelle retrovie. Lui realizzò l’impresa. Falcata potente e sguardo fisso sull’orizzonte, risultato: medaglia d’oro.

 Alle Universiadi di Città del Messico del 1979, Mennea, allora studente di Scienze Politiche, coprì in 19 secondi e 72 centesimi i 200 metri, sbaragliando il precedente primato appartenente al velocista afro-americano Tommie Smith, quello del braccio alzato e del pugno chiuso sul gradino più alto del podio delle Olimpiadi di Città del Messico del 1968.

Sulle piste d’atletica di mezzo mondo Mennea segnò l’equinozio dell’atletica leggera. «Lo sport ha bisogno di progettazione, innovazione e impegno costante», dichiarò senza compromessi ai giornali. Il suo metodo di lavoro era duro e serrato. Sacrificio e sofferenza rappresentavano l’unica chiave possibile per scassinare la porta del successo.

Lavoro e dedizione. Ideali giusti in un’epoca sbagliata, segnata dai boicottaggi sportivi e dalla guerra fredda imperante, combattuta a suon di medaglie sui campi di gara, dove progettazione e innovazione spesso facevano il paio con il doping di Stato. Nonostante la scienza, nonostante il progresso, nonostante tutto, nonostante tutti, i 19 secondi e 72 centesimi del record di Mennea rimasero immacolati per diciassette anni, fino ad Atlanta ’96, quando l’americano Michael Johnson divenne campione olimpico e primatista mondiale con il tempo di 19’’32. Quel record scritto da uno studente italiano di belle speranze rimase però immortale, imbalsamato per sempre nella storia come baluardo alla resistenza sportiva e non solo.

Nella vita, Pietro Mennea non è stato solo atleta, ma anche marito, avvocato, commercialista, professore e scrittore. Nel palmares oltre la medaglia olimpica di Mosca 1980 e i 19’’72 di Città del Messico anche quattro lauree (scienze politiche, giurisprudenza, scienze dell’educazione motoria e lettere), un mandato da europarlamentare tra il 1999 e il 2004 ed oltre venti pubblicazioni.

«Non penserete mica che i miei sessant’anni mi spaventino. Il titolo di uno dei miei recenti libri è "La corsa non finisce mai": vi assicuro che è una grande verità».

Un campione vero, un uomo tutto d’un pezzo.

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