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La Chiesa nel mondo contemporaneo

di Massimo Borghesi

- Fonte: Città Nuova

Chiesa e mondo contemporaneo. lo sguardo di Francesco. Condividiamo con gli abbonati il saggio di approfondimento del professor Massimo Borghesi, pubblicato nel dossier Francesco da Città Nuova. Un contributo per leggere il nuovo invito fatto dal papa alla Chiesa italiana di avviare un percorso sinodale superando il metodo delle “strategie elitarie”: «È il tempo di comunità missionarie, libere e disinteressate, che non cerchino rilevanza e tornaconti, ma percorrano i sentieri della gente del nostro tempo, chinandosi su chi è al margine. È il tempo di comunità che guardino negli occhi i giovani delusi, che accolgano i forestieri e diano speranza agli sfiduciati»(Francesco 30 gennaio 2021). Come sottolinea Borghesi nel suo intervento, «al di del nichilismo e del fondamentalismo, del vuoto di Dio e dell’ira del Dio degli eserciti, l’amore di Cristo è la strada, colma di senso e non violenta, che la Chiesa dona al mondo di oggi»

Chiesa e mondo conteporaneo Cecilia Fabiano/ LaPresse

1- Evangelizzazione e promozione umana. Il “grande” Paolo VI e la Evangelii nuntiandi.

Ogni papa assume come modello la figura e l’operato di un papa che lo ha preceduto. Chi sia il pontefice ideale lo si comprende, talvolta, dal nome che il pontefice regnante assume. Nel caso di Francesco, primo papa a chiamarsi così, il nome non offre però indizi. Tuttavia da più di una confessione sappiamo che Bergoglio ha nutrito e nutre una grande ammirazione per la persona di Paolo VI.  Come scrive Austen Ivereigh nella sua bella biografia su Jorge Mario Bergoglio: «Per Francesco, come per tutta la sua generazione, la “grande luce” è stata Paolo VI»[1]. Paolo VI rappresenta, per il  Pontefice argentino, il Papa del Concilio e di Evangelii Nuntiandi, la Esortazione Apostolica sull’evangelizzazione nel mondo contemporaneo, del 1975. Si tratta del documento pontificio forse più apprezzato, quello in cui lo spirito missionario del Vaticano II, riproposto da Francesco in Evangelii gaudium, trova la sua sintesi perfetta. Paolo VI è un modello per Francesco proprio perché il suo ideale ecclesiale corrisponde a quell’idea della sinfonia degli opposti che, come ho mostrato nel mio volume Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale[2], costituisce il filo rosso del pensiero bergogliano. Criticato da destra e da sinistra, papa Montini ha saputo traghettare la Chiesa oltre la tempesta post-conciliare; non è venuto meno al compito, dettato dallo Spirito, di tenere unito il corpo di Cristo nel dramma del tempo. Un compito che il Papa odierno sente, evidentemente, come proprio. Per questo, come scrive Luigi Accattoli:

Francesco ricorda spesso Montini “con affetto e con ammirazione”. Lo qualifica abitualmente come “il grande Paolo VI”. Ha usato questa espressione almeno undici volte: il 25 aprile, il 1° giugno, il 22 giugno (due volte) 2013; il 29 gennaio, il 16 giugno (due volte), il 25 giugno, il 26 luglio, il 19 ottobre (due volte) 2014. Una volta lo ha detto “grande protagonista del dialogo ecumenico” (25 gennaio 2014), un’altra “grande timoniere del Concilio” (19 ottobre 2014)[3]

Questa stima si spiega a partire dal valore che assume, per Francesco, la lettura di Evangelii Nuntiandi. «Parlando a un pellegrinaggio bresciano nel 50° dell’elezione di Montini, Francesco afferma il 22 giugno 2013 che l’esortazione apostolica “Evangelii nuntiandi” (1975) “è il documento pastorale più grande che è stato scritto fino a oggi”; e ne segnala l’invito ad “annunciare il Vangelo all’uomo di oggi, con misericordia, con pazienza, con coraggio, con gioia”» [4]. L’Esortazione Apostolica di Paolo VI è un faro a cui Bergoglio, da cardinale e da Papa, ha sempre guardato come un modello non superato per delineare le linee guida dell’evangelizzazione nel mondo contemporaneo.

Perché, giova chiedersi, Evangelii Nuntiandi riveste tanta importanza per papa Francesco? Per intenderne la portata occorre comprendere il significato che  assume, agli occhi di Bergoglio, allorché viene pubblicata nel 1975. E’ il tempo in cui il più giovane Provinciale dei gesuiti argentini si trova a guidare la Compagnia in un momento storico tragico in cui la Chiesa tendeva a spezzarsi nelle due ali estreme: quella della sinistra  filorivoluzionaria  e quella della destra rappresentata dal volto cruento della dittatura militare. Il provinciale Bergoglio doveva tenere uniti i gesuiti attratti dalle sirene della teologia della liberazione filomarxista o respinti, per la paura, nelle braccia degli uomini in divisa. Donde il valore liberante di EN con la sua idea della Chiesa come coincidentia oppositorum, come sintesi superiore, oltre le teologie politiche progressiste o reazionarie. EN si poneva oltre l’ antitesi dialettica tra fede e impegno sociale che divideva, a destra come a sinistra, la coscienza “infelice” cattolica degli anni ’70. Come affermava Bergoglio:

 

Le nostre tentazioni possono assumere diversi aspetti, ma si riducono tutte a “tre tentazioni” e, più fondamentalmente, a una sola: quella di istituire una “dicotomia” e da lì farci optare per un falso “riduzionismo”. Ce lo suggerisce la Evangelii nuntiandi di Paolo VI, la magna charta dell’evangelizzazione nei tempi attuali, che ci propone una serie di “dicotomie” e i relativi “riduzionismi” a uno dei termini della contrapposizione malposta: tra Cristo e la Chiesa (EN 16), tra annuncio esplicito e implicito (ibid.  21-22), tra Vangelo e promozione umana (ibid. 31-34), tra conversione personale e cambio delle strutture (ibid. 36), tra cambio graduale e cambio rapido (ibid. 76) e così via. Tutte questedicotomie” dividono ciò che Dio ha unito; lo “spirito del Male”, come diceva san Pietro Favre, è “spirito di divisione” e non di unione[5]

 

Oltre il valore di sintesi, Evangelii Nuntiandi  conteneva anche un altro elemento che la rendeva preziosa agli occhi di Bergoglio: il paragrafo del cap. IV dedicato a “La pietà popolare”. Come recitava il testo: «La religiosità popolare, si può dire, ha certamente i suoi limiti. […]. Ma se è ben orientata, soprattutto mediante una pedagogia di evangelizzazione, è ricca di valori. Essa manifesta una sete di Dio che solo i semplici e i poveri possono conoscere; rende capaci di generosità e di sacrificio fino all’eroismo, quando si tratta di manifestare la fede; comporta un senso acuto degli attributi profondi di Dio: la paternità, la provvidenza, la presenza amorosa e costante; genera atteggiamenti interiori raramente osservati altrove al medesimo grado: pazienza, senso della croce nella vita quotidiana, distacco, apertura agli altri, devozione. A motivo di questi aspetti, noi la chiamiamo volentieri “pietà popolare”, cioè religione del popolo, piuttosto che religiosità»[6]. Si tratta di un testo che Bergoglio citerà, alla lettera, in un articolo del 1988 dal titolo Servizio della fede e promozione della giustizia.  Dietro di esso vi era la riflessione di Lucio Gera, uno dei protagonisti della Teologia del pueblo portata avanti dalla Scuola del Rio de la Plata. La Teologia del Pueblo, diversamente dalla Teologia della liberazione di Gustavo Gutierrez, rifiutava la violenza rivoluzionaria e, contemporaneamente affermava il diritto alla giustizia e l’opzione preferenziale per i poveri  a partire dalla fede popolare cristiana.  Questa teologia rifluirà nel documento finale del Terzo Consiglio episcopale latinoamericano (CELAM) tenutosi a Puebla nel 1979.  «A Puebla presero l’esortazione apostolica Evangelii Nuntiandi (la cui redazione era stata influenzata dallo stesso Gera) e l’applicarono all’America Latina (è citata novantasette volte nel documento conclusivo)»[7].

La sintesi equilibrata tra i poli – evangelizzazione/promozione umana; fede/giustizia – e la valorizzazione della pietà popolare spiegano il valore che Evangelii Nuntiandi  riveste per Bergoglio. Un valore che rimane associato, nel suo ricordo, all’incontro che, insieme a 237 delegati provenienti da 90 provincie di 5 continenti, ebbe a Roma con il Papa, tra il dicembre 1974 e il marzo 1975, in occasione della Congregazione generale della Compagnia di Gesù. Qui l’assemblea ebbe, in sede di apertura un incontro con Paolo VI il quale rivolse loro un importante discorso. Bergoglio lo avrebbe definito come «uno dei discorsi più belli che un pontefice abbia rivolto alla Compagnia»[8]. In esso Paolo VI affermava: «L’originalità di Ignazio, pare a noi, nell’aver intuito che i tempi richiedevano persone completamente disponibili, capaci di staccarsi da tutto e di seguire qualunque missione fosse indicata dal Papa, e reclamata a suo giudizio dal bene della Chiesa»[9]. Commentandolo Bergoglio osservava come:

 

La disponibilità, insita nel nucleo del carisma ignaziano, è, dunque, direttamente correlata a questa apertura ai popoli, alla stima per i popoli, all’affetto per i popoli. La disponibilità del gesuita lo mette in una tensione molte volte dolorosa: dovrà essere disposto ad andare in qualsiasi posto e al tempo stesso, a inserirsi nel posto in cui si trova inculturandosi come se fosse l’unico. Questo “mette tensione”, questo fa male, questa è la croce con cui l’incipiente Compagnia voleva rafforzare i popoli nell’unità della Chiesa [10].

 

La prospettiva di Paolo VI, con la sua tensione tra l’universalità della Chiesa e l’inculturazione particolare della fede, dava luogo, con la sua antinomia, a quel “pensiero tensionante” che, per Bergoglio, costituisce la cifra del pensiero cristiano autentico. Come scriveva nel 1988:

 

L’atteggiamento di inculturazione non è “quieto”, ma in tensione con l’universalità rispetto alla bipolarità (lo affermava già Paolo VI nella Evangelii nuntiandi). Una tensione che mai si risolve del tutto, bensì che, a ogni passo, va risolvendosi nell’antinomia (sempre su un piano superiore, però mantenendo la virtualità della tensione bipolare) di una sorta di universale concreto[11] .

 

Questa polarità, teorizzata e vissuta, si scontrava, nel clima degli anni ’70/’80, con il rifiuto dell’antinomia a favore della dialettica. Nel contesto infuocato del tempo, dominato da contraddizioni insanabili, ad una fede, spiritualistica e disincarnata, accentuatamente clericale, si contrapponeva una mondanizzazione dell’impegno cristiano egemonizzato dalla prospettiva marxista allora dominante. L’impegno sociale, divenuto totalizzante, assorbiva in sé il momento teologico. L’esito era una teologia politica, una teologia chiamata a sacralizzare il momento politico[12]. Ciò spiega la reazione di molti dei delegati gesuiti di fronte al discorso  di Paolo VI in occasione della Congregazione generale della Compagnia. Molti di loro,  ci ricorda Ivereigh, «rimasero perplessi di fronte al discorso; altri provarono angoscia al pensiero che, mentre loro erano convenuti a Roma per parlare di povertà e giustizia, il papa sembrasse ossessionato dalla disciplina e dalla dottrina. Ma alcuni dei presenti, tra cui Bergoglio, si trovarono in piena sintonia con Paolo VI. Bergoglio riconobbe che nell’analisi del papa c’era l’esatta percezione di quanto era andato storto sia nella provincia argentina che altrove. […]. Secondo padre Swinnen, allora maestro dei novizi, l’allocuzione del papa “forgiò sotto molti profili la visione che aveva Bergoglio della Compagnia» [13]. Ciò spiega il riserbo che Bergoglio tenne da Provinciale sul Decreto  quattro sulla giustizia sociale emerso, con una formulazione controversa, dai lavori della 32° Congregazione. «Nel 1978, durante il suo discorso di provinciale, Bergoglio aveva fatto molti riferimenti alla trentaduesima congregazione, ma nessuno al Decreto quattro. Aveva invece citato il famoso documento Evangelii Nuntiandi, la storica esortazione apostolica di Paolo VI rilasciata pochi mesi prima dopo la fine della trentaduesima congregazione, nel dicembre 1975. In essa Paolo VI chiarisce, in linea con Medellín, che non si può predicare il Vangelo senza curarsi di liberare il popolo da “concrete situazioni di ingiustizia”. Ma egli mette anche in guardia dal rischio che la Chiesa riduca la propria missione a “mero progetto temporale”, suscettibile di “manipolazione da parte di sistemi ideologici e partiti politici”. Era, questa, la sfumatura di discernimento che mancava in molte delle applicazioni del Decreto quattro. L’Evangelii Nuntiandi sarebbe diventato il documento religioso preferito da Bergoglio, che lo citò per tutto il periodo in cui fu provinciale, rettore e, in seguito, vescovo. Non molto tempo dopo essere stato eletto papa, lo definì “il più bel documento pastorale che sia mai stato scritto”. Il suo grande scopo era conciliare il magistero eterno della Chiesa con la diversità delle culture»[14].

Evangelii Nuntiandi era la sintesi di cui la Chiesa aveva bisogno per poter affrontare il tempo storico senza cadere nella trappola delle ideologie. L’incarnazione nel mondo e la trascendenza di Dio erano i due poli che il cristiano, contemplativo nell’azione, doveva tenere fermi nella loro indissolubile tensione. Il “grande Paolo VI” è il punto fermo a cui guarda il giovane gesuita Jorge Mario Bergoglio. Da papa Montini, dalla

Evangelii Nuntiandi sorge il modello dellla tensione polare tra kerygma e impegno per la giustizia che sta al centro di Evangelii gaudium, il manifesto del pontificato per la Chiesa e il mondo di oggi.

 2 – Gnosticismo e pelagianesimo. La Grazia viene prima.

La formazione spirituale del futuro Papa deve molto, come si è detto,  all’esperienza maturata da provinciale dei gesuiti, a 36 anni, nella situazione tragica dell’Argentina degli anni ’70. La Compagnia di Gesù, al pari della Chiesa, doveva mantenere la tensione della complexio oppositorum, doveva unire, non dividere. Doveva, alla luce del Concilio e del magistero di Paolo VI, annodare evangelizzazione e promozione umana, contemplazione ed azione, la cura della religiosità popolare del pueblo fiel (disprezzata dai progressisti) e l’impegno per la giustizia (disprezzato dai conservatori). Doveva occuparsi della città ma a partire dalla periferia, come insegnava la filosofa Amelia Podetti, a partire dai poveri, dagli scarti. E questo secondo l’ottica evangelica del samaritano, non secondo l’ideologia marxista della prassi.

Questa visione è quella che guida Francesco nel suo pontificato e orienta il suo sguardo sulla Chiesa contemporanea. Una visione che a molti, oggi, anche all’interno della Chiesa, appare fuori luogo, datata, legata al mondo degli anni ’70 quando il cristianesimo si misurava con l’egemonia comunista a livello mondiale. Donde le accuse di populismo, di terzomondismo, di pauperismo rivolte al Papa, soprattutto dai settori conservatori legati al modello liberalcapitalistico imperante nell’era della globalizzazione. Accuse che presuppongono la liquidazione della Dottrina sociale della Chiesa il cui studio, dagli anni ’90 in avanti, è letteralmente scomparso. Il mondo è mutato. Dopo l’89, dopo la caduta del muro di Berlino e del comunismo sovietico, si apre lo scenario di una globalizzazione senz’anima la cui universalità è dominata, come afferma Francesco, dalla figura della “sfera” che elimina, come un rullo compressore, ogni particolarità politica, ideale, religiosa. Modello tecnocratico ed eros qualificano la polarità fondamentale di un mondo agnostico che non necessita di trascendenza. Le speranze di una rinascita religiosa dell’Europa, dell’Est e dell’Ovest, a seguito della caduta del comunismo vengono presto meno. La Chiesa, sconcertata, si chiude progressivamente in sé stessa. La polarità tra Chiesa e mondo si trasforma in contraddizione. La conseguenza è che il cattolicesimo si clericalizza. Torna, come negli anni ’50  ad erigere muri, ad edificare un perimetro ecclesiastico di fronte ad un mondo ostile. Per Francesco il cattolicesimo, come unità antinomica degli opposti, deve essere attento a correggere le derive spirituali, i processi storico-spirituali che tendono, anche dentro la Chiesa, ad assolutizzare una polarità.  Nel contesto odierno il clericalismo è uno dei pericoli più evidenti che minacciano la vitalità della fede.  Una Chiesa che, dopo la scomparsa dell’avversario comunista, invece di aprirsi ad una rinnovata stagione missionaria, tende a chiudersi, a cercare circoli protetti, a fuggire un mondo ritenuto ostile ed alieno, a gratificarsi della propria atosufficienza e della propria moralità a fronte di un mondo dominato dal relativismo e dell’edonismo, non è una Chiesa viva.

I due grandi rischi che attraversano il cattolicesimo contemporaneo sono rappresentati, secondo il Papa, dallo gnosticismo e dal pelagianesimo.  Ambedue ignorano il ruolo della Grazia nella vita cristiana. Essi esprimono la secolarizzazione dentro la Chiesa, non fuori di essa. Il pericolo per la fede, oggi, proviene, secondo Francesco, non tanto e non semplicemente  dalle ideologie mondane quanto dalla mondanizzazione interna alla Chiesa medesima. Il “mondo” è dentro la Chiesa e non semplicemente “fuori”. In ciò Francesco riflette pienamente la persuasione di Henri de Lubac, uno dei suoi grandi maestri ideali. Scriveva de Lubac in Meditation sur l’Église:

Ma il pericolo più grande per la Chiesa – per noi, che siamo Chiesa – la tentazione più perfida, quella che sempre rinasce, insidiosamente, allorché tutte le altre sono vinte, alimentata anzi da queste vittorie, è quella che Dom Vonier chiamava “mondanità spirituale”. Con questo noi intendiamo, diceva, <<un atteggiamento che si presenta praticamente come un distacco dall’altra mondanità, ma il cui ideale morale, nonché spirituale, non è la gloria del Signore, ma l’uomo e la sua perfezione. Un atteggiamento radicalmente antropocentrico; ecco la mondanità dello spirito>>[15].

Pelagianesimo e gnosticismo sono, oggi,  l’espressione di questa mondanità spirituale. Il Papa ne parla ripetutamente. Nella Evangelii gaudium, ai paragrafi 93-97, nel suo discorso alla Chiesa italiana del 10 novembre 2015, nel capitolo secondo della Esortazione apostolica Gaudete et exsultate. Essi vengono richiamati anche nella Lettera Placuit Deo, del 22 febbraio 2018, ad opera della  Congregazione per la Dottrina della Fede. Costituiscono gli abiti mentali che impediscono la dimensione missionaria della Chiesa, la consapevolezza, che essa dovrebbe avere, di portare un dono di grazia di cui non ha merito, non è opera sua. Gnosi e pelagianesimo favoriscono, al contrario, il clericalismo, una pretesa di perfezione immanente dovuta al ragionamento o all’operare dell’uomo. Si oppongono alla grazia, al primato della Grazia. Francesco, che ha una sensibilità sociale fortissima, è, nella sua radice spirituale, un mistico. L’agire del cristiano nel mondo si fonda sull’incessante domanda, da parte  dell’uomo, della Presenza di Dio. Gnostici e pelagiani, al contrario, portano avanti un progetto che, in nome di Dio, è radicalmente antropocentrico. Dal punto di vista ignaziano cercano la propria gloria, non quella divina. Nella Evangelii gaudium si afferma:

Questa mondanità può alimentarsi specialmente in due modi profondamente connessi tra loro. Uno è il fascino dello gnosticismo, una fede rinchiusa nel soggettivismo, dove interessa unicamente una determinata esperienza o una serie di ragionamenti e conoscenze che si ritiene possano confortare e illuminare, ma dove il soggetto in definitiva rimane chiuso nell’immanenza della sua propria ragione o dei suoi sentimenti. L’altro è il neopelagianesimo autoreferenziale e prometeico di coloro che in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico proprio del passato. È una presunta sicurezza dottrinale o disciplinare che dà luogo ad un elitarismo narcisista e autoritario, dove invece di evangelizzare si analizzano e si classificano gli altri, e invece di facilitare l’accesso alla grazia si consumano le energie nel controllare. In entrambi i casi, né Gesù Cristo né gli altri interessano veramente. Sono manifestazioni di un immanentismo antropocentrico. Non è possibile immaginare che da queste forme riduttive di cristianesimo possa scaturire un autentico dinamismo evangelizzatore[16].

Per la nuova gnosi la fede dipenderebbe, oggi, dalla custodia della “retta dottrina” da parte di un’elite di  ortodossi che vedono ovunque, nella Chiesa come nel mondo, semi di corruzione e di disfacimento. Solo essi mantengono, nel mondo perverso, la purezza della fede. Non si fa fatica a cogliere in questa pretesa “elitaria” la reazione dei tradizionalisti nella Chiesa odierna. Per questi zelanti, che non si mescolano con gli “impuri”, tutta la Chiesa, dal Concilio Vaticano II in avanti, è segnata da un cammino inesorabile di decadenza. Solo essi rimangono, nell’ombra, a custodire la luce che tornerà a brillare. In Gaudete et exsultate Francesco afferma che: «Concepiscono una mente senza incarnazione, incapace di toccare la carne sofferente di Cristo negli altri, ingessata in un’enciclopedia di astrazioni. Alla fine, disincarnando il mistero, preferiscono “un Dio senza Cristo, un Cristo senza Chiesa, una Chiesa senza popolo”»[17].  Nella Evangelii gaudium il Papa scrive che:

In questo contesto, si alimenta la vanagloria di coloro che si accontentano di avere qualche potere e preferiscono essere generali di eserciti sconfitti piuttosto che semplici soldati di uno squadrone che continua a combattere. Quante volte sogniamo piani apostolici espansionisti, meticolosi e ben disegnati, tipici dei generali sconfitti! Così neghiamo la nostra storia di Chiesa, che è gloriosa in quanto storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è “sudore della nostra fronte”. Invece ci intratteniamo vanitosi parlando a proposito di “quello che si dovrebbe fare” – il peccato del “si dovrebbe fare” – come maestri spirituali ed esperti di pastorale che danno istruzioni rimanendo all’esterno. Coltiviamo la nostra immaginazione senza limiti e perdiamo il contatto con la realtà sofferta del nostro popolo fedele. Chi è caduto in questa mondanità guarda dall’alto e da lontano, rifiuta la profezia dei fratelli, squalifica chi gli pone domande, fa risaltare continuamente gli errori degli altri ed è ossessionato dall’apparenza. Ha ripiegato il riferimento del cuore all’orizzonte chiuso della sua immanenza e dei suoi interessi e, come conseguenza di ciò, non impara dai propri peccati né è autenticamente aperto al perdono. È una tremenda corruzione con apparenza di bene. Bisogna evitarla mettendo la Chiesa in movimento di uscita da sé, di missione centrata in Gesù Cristo, di impegno verso i poveri. Dio ci liberi da una Chiesa mondana sotto drappeggi spirituali o pastorali! Questa mondanità asfissiante si sana assaporando l’aria pura dello Spirito Santo, che ci libera dal rimanere centrati in noi stessi, nascosti in un’apparenza religiosa vuota di Dio. Non lasciamoci rubare il Vangelo![18] .

Se la gnosi qualifica, oggi, la destra cattolica, il pelagianesimo è un’eredità della sinistra. Un’eredità che attualmente caratterizza la mentalità di tanti conservatori. Essa deriva dall’idea, corretta, che l’agire del cristiano porti un contributo di novità nel mondo. Un agire, certo, illuminato e guidato dalla Grazia. Epperò nei pelagiani la Grazia diviene un “presupposto”, non una domanda. Essi partono dal presupposto che la fede garantisca esiti migliori, perfetti, sicuri, e, a partire da ciò, ne traggono un giudizio di condanna senza appello verso il mondo esterno. Dimenticano che ciò che sono e ciò che hanno non è loro “proprietà” ma un dono che ogni giorno deve essere domandato. Una fortuna di cui essere grati e non presuntuosi. Nel criticare questa pretesa, che si sposa con la posizione gnostica nel suo elitarismo critico verso la massa, Francesco si incontra pienamente con S. Agostino. In Gaudete et exsultate scrive che:

Quelli che rispondono a questa mentalità pelagiana o semipelagiana, benché parlino della grazia di Dio con discorsi edulcorati, “in definitiva fanno affidamento unicamente sulle proprie forze e si sentono superiori agli altri perché osservano determinate norme o perché sono irremovibilmente fedeli ad un certo stile cattolico”. Quando alcuni di loro si rivolgono ai deboli dicendo che con la grazia di Dio tutto è possibile, in fondo sono soliti trasmettere l’idea che tutto si può fare con la volontà umana, come se essa fosse qualcosa di puro, perfetto, onnipotente, a cui si aggiunge la grazia. Si pretende di ignorare che “non tutti possono tutto” e che in questa vita le fragilità umane non sono guarite completamente e una volta per tutte dalla grazia. In qualsiasi caso, come insegnava sant’Agostino, Dio ti invita a fare quello che puoi e “a chiedere quello che non puoi”; o a dire umilmente al Signore: “Dammi quello che comandi e comandami quello che vuoi”. In ultima analisi, la mancanza di un riconoscimento sincero, sofferto e orante dei nostri limiti è ciò che impedisce alla grazia di agire meglio in noi, poiché non le lascia spazio per provocare quel bene possibile che si integra in un cammino sincero e reale di crescita. La grazia, proprio perché suppone la nostra natura, non ci rende di colpo superuomini. Pretenderlo sarebbe confidare troppo in noi stessi. In questo caso, dietro l’ortodossia, i nostri atteggiamenti possono non corrispondere a quello che affermiamo sulla necessità della grazia, e nei fatti finiamo per fidarci poco di essa. Infatti, se non riconosciamo la nostra realtà concreta e limitata, neppure potremo vedere i passi reali e possibili che il Signore ci chiede in ogni momento, dopo averci attratti e resi idonei col suo dono. La grazia agisce storicamente e, ordinariamente, ci prende e ci trasforma in modo progressivo. Perciò, se rifiutiamo questa modalità storica e progressiva, di fatto possiamo arrivare a negarla e bloccarla, anche se con le nostre parole la esaltiamo[19].

3 – Il nuovo equilibrio tra kerygma e morale

La Chiesa deve ritrovare il giusto rapporto tra Grazia e libertà, soprannaturale e natura se vuole uscire dalla mondanizzazione. E’ questa una applicazione delle legge dalla polarità la quale, in parallelo, richiede anche un nuovo equilibro tra la dottrina morale cristiana e il kerygma.  Dopo la caduta del muro di Berlino, nel 1989, la Chiesa accetta il modello della globalizzazione, senza contestarne il paradigma tecnocratico e le derive sociali. Reagisce solamente alle  conseguenze etiche che riguardano le sfere della vita e quelle della famiglia. Terminata la stagione calda dell’impegno storico di sinistra, tipico degli anni ’70 caratterizzate dalle teologie politiche, della rivoluzione, della speranza, ecc., si assiste ad una sorta di riflusso, al ripiegamento in un recinto protetto. L’impegno nel mondo è affidato alla difesa di un insieme, definito e selezionato, di valori discendenti dall’etica e dall’antropologia cristiana minacciati dall’onda relativistica che caratterizza il tempo nuovo. In parallelo viene meno l’attenzione per la questione sociale e si attenua fortemente la percezione di una Chiesa missionaria, proiettata, oltre i propri confini, nella dimensione dell’ “incontro”. Il processo di secolarizzazione determina, nel mondo cristiano, una reazione etica. La Chiesa si oppone ma non è in grado, positivamente, di porsi, di affermare una tipologia umana nella quale l ‘ “attrattiva Gesù” sia più forte dell’attrattiva estetica della società opulenta. Da qui la correzione del Papa. Ancora una volta si tratta di ristabilire il giusto rapporto tra contemplazione e azione, di porre in primo piano ciò che viene prima. In questo caso il “prima” è dato dall’annuncio della fede. Conformemente alla dialettica polare egli vuole riportare in primo piano la dimensione missionaria della Chiesa che, negli ultimi decenni, è caduta in secondo piano. Per questo, come afferma nell’intervista con P. Spadaro:

«Non possiamo insistere solo sulle questioni legate ad aborto, matrimonio omosessuale e uso dei metodi contraccettivi. […]. Gli insegnamenti, tanto dogmatici quanto morali, non sono tutti equivalenti. Una pastorale missionaria non è ossessionata dalla trasmissione disarticolata di una moltitudine di dottrine da imporre con insistenza. L’annuncio di tipo missionario si concentra sull’essenziale, sul necessario, che è anche ciò che appassiona e attira di più, ciò che fa ardere il cuore, come ai discepoli di Emmaus. Dobbiamo quindi trovare un nuovo equilibrio, altrimenti anche l’edificazione morale della Chiesa rischia di cadere come un castello di carte, di perdere la freschezza e il profumo del Vangelo. La proposta evangelica deve essere più semplice, profonda, irradiante. E’ da questa proposta che poi vengono le conseguenze morali»[20] .

Lo stesso concetto, l’urgenza di trovare un nuovo equilibrio nel pensiero cattolico, è ribadito, con parole pressoché identiche, nella Evangelii gaudium, nei paragrafi 34-39. Si tratta di una scelta ponderata e non di un cedimento al relativismo come affermano, in modo miope, certi settori del mondo cattolico che, su questo punto, contrappongono polemicamente l’insegnamento di Ratzinger a quello di Bergoglio. Laddove il mondo si presenta ormai come “pagano” il cristianesimo non si può proporre semplicemente a partire dalle sue conseguenze etiche. Queste possono avere, sul piano civile, un valore katechontico, in senso paolino. Possono cioè contenere, trattenere,  una deriva antropologica nichilista, non già però pretendere di generare positivamente la fede nel cuore degli uomini. Se lo scopo  oggi è la comunicazione del cristianesimo nella sua forma semplice ed essenziale allora la testimonianza diviene la forma privilegiata della presenza. La testimonianza e non, in primis, la posizione dialettica. Il cristianesimo non è, nella sua essenza, dialettico: è un affermativo che non necessita di nemici per essere. Su questo punto Francesco è in totale sintonia con il suo predecessore Benedetto. «Lui [Benedetto] ha detto che la Chiesa cresce per testimonianza, non per proselitismo»[21]. E ancora, sempre citando Benedetto: «All’inizio dell’essere cristiano non c’è una decisione etica o una grande idea, bensì l’incontro con un avvenimento, con una Persona, che dà alla vita un nuovo orizzonte e, con ciò, la direzione decisiva»[22] . Si tratta di una affermazione che torna ben due volte nel documento finale della Chiesa latinoamericana di Aparecida, del 2007. Un frase che segna il superamento dell’ideologia eticista che qualifica tanta parte del cattolicesimo contemporaneo.

La priorità dell’incontro significa la fisicità del cristianesimo, la prossimità sensibile, una prossimità abbracciante ed amorevole. La tragedia della Chiesa, negli ultimi decenni, è stata la distanza: dei vescovi dai presbiteri, del clero dal popolo. La burocratizzazione  ecclesiastica ha il suo corrispettivo nella scomparsa del «pastore che sente l’odore delle sue pecore», nella moltiplicazione inutile di riunioni, convegni, documenti che nessuno leggerà mai, nel formalismo del linguaggio, nel vuoto delle prediche che non rimandano ad alcunché di reale, di accaduto, di vero.  La testimonianza come incontro indica, per il Papa,  una prossimità personale, affettiva, gratuita, che non pretende nulla, che non desidera nulla se non la felicità e il bene dell’altro. Colpisce la confessione di Francesco a P. Spadaro: «Io riesco a guardare le singole persone, una alla volta, a entrare in contatto in maniera personale con chi ho davanti. Non sono abituato alle masse»[23] . L’incontro è una modalità di essere che, in un mondo anonimo e convulso, rende presente il volto di Cristo, lo sguardo  colmo di tenerezza di Cristo per ogni singolo uomo.

4 – Verità e misericordia.

La tenerezza di Dio ci introduce ad una ulteriore coppia polare il cui giusto equilibrio deve oggi essere ripristinato: quella tra Verità e Misericordia[24]. Nel mondo odierno, segnato dalla freddezza dei cuori, solo la misericordia, una testimonianza che sorge dal cuore di Dio, può, secondo Francesco,   ridestare un’umanità bloccata. La priorità della misericordia si accompagna ad un giudizio storico, corrisponde ai “segni dei tempi”.

Sì, io credo che questo sia il tempo della misericordia. La Chiesa mostra il suo volto materno, il suo volto di mamma, all’umanità ferita. Non aspetta che i feriti bussino alla porta, li va a cercare per strada, li raccoglie, li abbraccia, li cura, li fa sentire amati. Dissi allora [nel luglio 2013, durante il viaggio di ritorno da Rio de Janeiro], e ne sono sempre più convinto, che questo sia un kairós, la nostra epoca è un kairós  di misericordia, un tempo opportuno[25].

Francesco indica una modalità di essere cristiani in relazione al tempo storico. La priorità della misericordia non indica una caratterizzazione irenica della fede, una opposizione tra verità e misericordia. La misericordia non si afferma “contro” la verità ma come manifestazione della verità. E’ il tipico caso di una verità antinomica, polare, e non disgiuntiva. Un punto, questo, della massima importanza, non compreso da quanti, dopo la pubblicazione dell’Esortazione apostolica Amoris laetitia nel 2016, hanno rivolto ripetute critiche a Francesco accusato di dare priorità alla dimensione pastorale rispetto alla dottrina, di attenuare il valore oggettivo della verità a favore della prassi, di rompere con la tradizione bimillenaria della Chiesa sul matrimonio e sui sacramenti.

In realtà nella Amoris laetitia non vi è alcun cedimento al prassismo e al relativismo morale. La dottrina della indissolubilità del matrimonio è mantenuta nella sua assolutezza, senza concedere nulla, ad es., alla possibilità di un secondo matrimonio come accade nella Chiesa ortodossa. La novità che Amoris laetitia apporta alla dottrina tradizionale risiede nella possibilità che in casi specifici e particolari il presbitero confessore, valutando moventi, coscienza e situazione concreta dei nuovi sposi, possa, dopo un accurato discernimento, consentire l’accesso all’Eucarestia. Con ciò non siamo di fronte ad un cedimento all’”etica della situazione”, come vogliono i critici[26], L’accusa a Francesco di opporre Misericordia e Verità risulta priva di fondamento. L’opposizione tra i due momenti contrasta sia con la teoria della polarità sia con la dottrina dell’unità dei trascendentali, assi portanti del pensiero di Bergoglio. Nel rapporto tra Verità e Misericordia siamo di fronte a due poli in tensione, uniti ed indissociabili[27]. La tensione è tra il valore universale del vero e la pratica della misericordia che è sempre particolare. I due poli si implicano, al punto che nessuna morale della situazione può relativizzare il vero, così come nessun dottrinarismo astratto può toglier la modalità specifica della carità richiesta dalla stessa verità. Per questo Amoris laetitia non offre «una nuova normativa generale di tipo canonico, applicabile a tutti i casi. E’ possibile soltanto un nuovo incoraggiamento ad un responsabile discernimento personale e pastorale dei casi particolari, che dovrebbe riconoscere che, poiché “il grado di responsabilità non è uguale in tutti i casi”, le conseguenze o gli effetti di una norma non necessariamente devono essere sempre gli stessi»[28]. L’Esortazione cita, in proposito, Tommaso d’Aquino: «Sebbene nelle cose generali vi sia una certa necessità, quanto più si scende alle cose particolari, tanto più si trova indeterminazione. […] In campo pratico non è uguale per tutti la verità o norma pratica rispetto al particolare, ma soltanto rispetto a ciò che è generale; e anche presso quelli che accettano nei casi particolari una stessa norma pratica, questa non è ugualmente conosciuta da tutti. […] E tanto più aumenta l’indeterminazione quanto più si scende nel particolare»[29].

Commentando Tommaso, il Papa scrive che: «È vero che le norme generali presentano un bene che non si deve mai disattendere né trascurare, ma nella loro formulazione non possono abbracciare assolutamente tutte le situazioni particolari. Nello stesso tempo occorre dire che, proprio per questa ragione, ciò che fa parte di un discernimento pratico davanti ad una situazione particolare non può essere elevato al livello di una norma.»[30]. Rimane, quindi, lo scarto tra universale e particolare, scarto che non può essere tolto da nessuna relativizzazione della norma. La tensione polare è inaggirabile.  La mediazione è data da un discernimento che ha come scopo di non chiudere ad alcuno la via a Dio, da un giudizio che unisce l’ universale (la legge canonica) e il caso particolare, Verità e Misericordia. Questo impedisce una generalizzazione “astratta”, incapace di misurarsi con la realtà determinata. In tal modo, tenendo presente i casi particolari,  la Verità, minimamente attenuata nel suo valore di norma, può apparire come Misericordia perché «la misericordia non esclude la giustizia e la verità, ma anzitutto dobbiamo dire che la misericordia è la pienezza della giustizia e la manifestazione più luminosa della verità di Dio. Pertanto, conviene sempre considerare “inadeguata qualsiasi concezione teologica che in ultima analisi metta in dubbio l’onnipotenza stessa di Dio, e in particolare la sua misericordia”»[31].

Si conferma così il punto fermo del pensiero e del magistero di Bergoglio. La verità cristiana, senza alcun cedimento prassista, coincide con il Volto di Dio, cioè con la Misericordia. Un punto che, oltre a rivestire un significato perenne per la fede, coincide con il kairòs, con ciò che richiede il momento storico. Su questo punto la percezione spirituale di Francesco coincide pienamente con quella del Papa emerito, Benedetto XVI. Come afferma Ratzinger nella sua intervista del 2016 al teologo gesuita Jacques Servais:

Per me è un “segno dei tempi” il fatto che l’idea della misericordia di Dio diventi sempre più centrale e dominante. […] Papa Giovanni Paolo II – continua Ratzinger – era profondamente impregnato da tale impulso, anche se ciò non sempre emergeva in modo esplicito. Ma non è di certo un caso che il suo ultimo libro, che ha visto la luce proprio immediatamente prima della sua morte, parli della misericordia di Dio. […] Papa Francesco – continua Benedetto citando il suo successore – si trova del tutto in accordo con questa linea. La sua pratica pastorale si esprime proprio nel fatto che egli ci parla continuamente della misericordia di Dio. È la misericordia quello che ci muove verso Dio, mentre la giustizia ci spaventa al suo cospetto[32].

Le parole di Benedetto XVI hanno il valore di una importante conferma della prospettiva di papa Bergoglio. Esse tracciano un filo rosso che unisce gli ultimi tre pontificati. Al pari di Benedetto anche per Francesco la insistenza sulla misericordia configura, da un lato, l’essenza propria del cristianesimo, e, dall’altro, la risposta adeguata alla sfida che il mondo contemporaneo porta alla fede.  Al di del nichilismo e del fondamentalismo, del vuoto di Dio e dell’ira del Dio degli eserciti, l’amore di Cristo è la strada, colma di senso e non violenta, che la Chiesa dona al mondo di oggi.

[1]    A. IVEREIGH, The Great Reformer. Francis and the Making of a radical Pope, LLC, New York 2014, tr. it., Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, tr. it., Mondadori, Milano 2014, p. 440

[2]     M. BORGHESI, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica, Jaca Book, Milano 2017.

[3]     L. ACCATTOLI, Che prende Francesco da Montini? (www. luigiaccattoli.it)

[4]     Ibidem. La prova di questa stima risiede in Evangelii gaudium, il manifesto del pontificato bergogliano che anche nel titolo rievoca quello montiniano. In esso, contrariamente alla vulgata che dipinge un Pontefice sottomesso all’orizzonte sociologico, i documenti sociali di Paolo VI, come la Octogesima adveniens e la Populorum Progressio, sono citati 5 volte (& 184, 190 e 181, 190, 219). Al contrario Evangelii Nuntiandi è citata ben 11 volte (6 10, 12, 123, 146, 150, 151, 154, 156, 158, 176, 181). La controprova della sua rilevanza è data dal documento conclusivo della Chiesa latinoamericana raccolta nel Convegno di Aparecida, guidato dal cardinal Bergoglio, nel 2009. In esso Evangelii Nuntiandi torna quasi ogni volta che viene citato Paolo VI (&14, 109, 210, 258, 262, 281, 283, 331, 485, 553).

[5]    J. M. BERGOGLIO, Meditaciones para religiosos , Ediciones Diego de Torres, San Miguel (Buenos Aires) 1982, tr. it.,  Nel cuore di ogni  padre Alle radici della mia spiritualità,  Rizzoli, Milano 2014, p. 290.

[6]     PAOLO VI, Evangelii nuntiandi, 6, 48.

[7]    A. IVEREIGH, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, cit., p. 216.

[8]     J. M. BERGOGLIO, Reflexiones espirituales sobra la vida apostólica, Ediciones Diego de Torres, San Miguel (Buonos Aires) 1987, tr. it.,Chi sono i gesuiti, Emi, Bologna 2014, p. 20.

[9]     Op. cit., p. 31.

[10]    Ibidem.

[11]    J. M. BERGOGLIO, Servizio della fede e promozione della giustizia. Alcune riflessioni sul Decreto IV della XXXII Congregazione generale della Compagnia di Gesù, in <<Stromata>>, gennaio-giugno 1988, tr. it. in: PAPA FRANCESCO- JORGE MARIO BERGOGLIO, Pastorale sociale, a cura di M. Gallo, Jaca Book, Milano 2015, p. 86.

[12]    Cfr. M. BORGHESI, Critica della teologia politica. Da Agostino a Peterson: la fine dell’era costantiniana, Marietti, Genova- Milano 2013.

[13]   A. IVEREIGH, Tempo di misericordia. Vita di Jorge Mario Bergoglio, cit., p. 144.

[14]    Op. cit., pp. 145-146.

[15]    H. DE LUBAC, Meditation sur l’Église, Paris, Aubier 1953, tr. it, Meditazione sulla Chiesa, edizioni Paoline, Milano 1955, p. 446.

[16]    FRANCESCO,  Evangelii gaudium, & 94.

[17]    FRANCESCO,  Gaudete et exsultate, & 37.

[18]    FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 96-97.

[19]    FRANCESCO,   Gaudete et exsultate, & 49-50.

[20]             PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta, cit., p. 62

[21]             FRANCESCO, Svegliate il mondo, <<La Civiltà Cattolica>>, 3925 ( 2014).

[22]         BENEDETTO XVI, Deus caritas est, & 1, cit. in FRANCESCO, Evangelii gaudium, & 7

[23]             PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta, cit., p. 14

[24]    Cfr. M. BORGHESI, Jorge Mario Bergoglio. Una biografia intellettuale. Dialettica e mistica, cit., pp.251-268. Sulla dimensione della “tenerezza” nella teologia bergogliana cfr. M. BORGHESI, Fondamenti esistenziali della  teologia della tenerezza, in:AA.VV., La virtù della tenerezza. Il “Vangelo” di papa Francesco,  a cura di M. Musolino, Prefazione di R. Carello, Edizioni Porziuncola, S. Maria degli Angeli – Assisi 2019, pp. 53-69.

[25]             FRANCESCO, Il nome di Dio è misericordia. Una conversazione con Andrea Tornielli, Piemme, Milano 2016, p. 22.

[26]      Per una risposta ai critici si cfr, Conversazione con il cardinal Schönborn sull’ “Amoris laetitia”, intervista a cura di A. Spadaro, «La Civiltà Cattolica», 3986, (2016), pp. 130-152; F. COCCOPALMERIO, Il capitolo ottavo della esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2017; E. ANTONELLI – R. BUTTIGLIONE,  Terapia dell’amore ferito in “Amoris Laetitia”, Edizioni Ares, Milano 2017.

[27]      Si cfr. G. COTTIER – C. SCHÖNBORN  – J.- M. GARRIGUES, Verità e misericordia. Conversazioni con P. Antonio Spadaro, Milano, Àncora, 2015.

[28]    PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, & 300.

[29]    Op. cit.,  & 304. La citazione di Tommaso è tratta da Summa Theologiae I-II, q. 94, art. 4.

[30]    PAPA FRANCESCO, Amoris laetitia, & 304.

[31]    Op. cit., & 311.

[32]    BENEDETTO XVI, “E’ la misericordia che ci muove verso Dio”, intervista a cura di J. Servais, «Vatican insider», 16/03/2016.

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