La bellezza di un Barbiere

L'opera di Rossini rappresentata a Pesaro ha lasciato il segno, per la qualità degli interpreti e dello spettacolo
Rossini Opera festival

Non tutti ameranno l’opera, ma quando si tratta di Rossini, anche i giovani si scatenano. S’è visto a Pesaro, al Rossini Opera festival di agosto, di cui parliamo ancora perchè si tratta di una di quelle meraviglie che solo i giovani sanno fare, quando li lasciamo fare. In questo caso gli allievi dell’Accademia di Belle Arti di Urbino hanno ideato e attuato scene, costumi, video in mezzo al pubblico al Teatro Rossini in un folgorante Barbiere di Siviglia. Meno male che l’economia è in crisi, verrebbe da dire, così che il bisogno aguzza l’ingegno!

Dunque, il Barbiere, ascoltato centinaia di volte, di moda dal 1816 senza mai conoscere tramonto. Perché piace così tanto questo melodramma buffo in due atti, scritto da un Rossini ventiquattrenne in meno di un mese? I personaggi son quelli soliti della comicità settecentesca. Uno spasimante, una ragazza furbetta, un tutore incallito, un ipocrita. Nulla di nuovo. Ma su tutti e con tutti c’è Figaro, invenzione modernissima dell’uomo che si fa da sé – ben prima dell’homo americanus -, astuto imbonitore e faccendiere, dominatore della scena e della vita, giovane come sono tutti gli altri, eccetto i vecchiotti che “cercano moglie” (quanta attualità, oggi i vecchiotti cercano l’amante o la compagna…).

La trama è arcinota e il finale lieto è di prammatica. Ma in mezzo quanta allegria, furberia, picche e ripicche, calunnie e sfuriate. Rossini emerge nelle scene d’insieme, il finale primo ad esempio, dove tutti – personaggi e polizia – cantano “Mi par d’essere in un’orrida fucina”, un coro con “stretta” che è come una esplosione di assurdità: sembra un maremoto che avanza incalza e poi riprende creando quella allegrissima confusione universale, uno tsunami musicale, che è lo stordimento nel ritmo e nel suono fisico tanto rossiniano.

Ma veniamo all’edizione pesarese. I giovani, si diceva, anche quelli del coro San Carlo cittadino, bene istruito, bene organizzato, dal bel suono (in futuro farà ancor meglio). Poi, i cantanti-attori, vivacissimi sul palcoscenico e in sala, pieni di autentico furore fantasioso che ha dato il sapore all’opera di un teatro buffo d’avanguardia, ma senza mai strafare, il che è una gran cosa. L’Almaviva  di Juan Francisco Gatell è gentile e spiritoso, la voce vola in alto e non teme la pericolosissima aria “Cessa di più resistere” che arriva alla fine dell’opera dopo una girandola di suoni e di vocalizzi. La Rosina di Chiara Amarù è piacevole, la voce intonata, fresca, la verve al punto giusto. Formidabile Alex Esposito come un Basilio grifagno, barocco, come un grande artista sa rendere insieme al Bartolo squinternato di Paolo Bordogna, altro talento vocale e attoriale di gran pregio. E infine il Figaro straripante di Florian Serpey, immenso, di voce gagliarda e di ritmo implacabile. Ma giova sottolineare anche la bella prova della Berta di Felicia Bongiovanni.

Ed ecco la direzione della sempre buona orchestra del Comunale bolognese affidata al giovane emergente Giacomo Sagripanti. Da una orchestra di formato settecentesco – come si apprezza meglio il suono rossiniano! – egli ha saputo estrarre suoni appuntiti – mi riferisco ad alcune frasi dei violini primi nella sinfonia -, ritmi leggeri, vortici pazzi (il tempo dello “Zitti , zitti”), languori soavi dei legni e in specie del clarinetto, volatine degli archi, e poi la magia delle viole, finalmente messe in luce nelle arie e nei duetti e la moderazione delle percussioni, ma capaci poi di un “tutti” da sarabanda gioiosissima. Gesto sicuro e preciso, nessun egocentrismo appariscente, sobrietà e fuoco controllato. Un gran bel divertimento.



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