Ken Loach rivince a Cannes

Vittoria a sorpresa del regista britannico (79 anni), con un film di impegno sociale. Scorrendo i premi, l’impressione è che si sia voluto accontentare un po’ tutti. Alla fine, in mezzo a un’ondata di star, rimane poco buon cinema, perché commercio, mondanità e apparenza ormai contano di più
Cannes

E così Ken Loach, a 79 anni, si riprende la Palma d’oro giusto dieci anni dopo Il vento accarezza l’erba. La storia di I, Daniel Blake, carpentiere emarginato da un sistema burocratico che lo pone fra i nuovi poveri dell’Inghilterra – il quinto paese più ricco del mondo –, deve aver convinto la giuria, che, si sa, ha molto discusso, ma alla fine ha accettato di premiare un film che suona di moda.

 

Perché non si dica mai che Cannes non sia attenta all’oggi, cioè alle nuove povertà, magari dando la Palma ad un lavoro che qualcuno definisce un “comizio scontato”. Ma succede lo stesso in altri festival: Venezia, tanto per dire qualcuno di casa nostra.

 

Gli altri riconoscimenti si sono spartiti fra diversi lavori, dando l’immagine di una rassegna dove sono defluiti non uno ma molti temi, e dove ci si è sforzati di accontentare un po’ tutti, dagli amanti del cinema d’essai a quelli impegnati, a quelli intimistici, ai trasgressivi e scandalistici tout court, con l’occhio attentissimo a produttori e distributori: perché un film può venire premiato quanto si vuole, ma se poi non trova la distribuzione, chi lo vedrà?

 

Ecco allora la lista dei premi: miglior attore Shabab Hosseini per Le Client di Asghar Farhadi (Iran) che ottiene anche la miglior sceneggiatura, miglior attrice Jaclyn Jose per Ma’Rose di Brillante Mendoza (Filippine); miglior regista: ex aequo Olivier Assayas (Francia) per Personal Shopper e Cristian Mungiu per Bacalaureat (Romania); Grand Prix della giuria al canadese Xavier Dolan per Juste la fin du monde e Camera d’or a Divines di Houda Benyamina, esordiente franco-marocchina.

 

Nessun premio a Sean Penn – un film contestatissimo e crudele (Libération) sulla guerra in Liberia –, a Isabelle Huppert nel contorto e arduo Elle, né ad Adriana Ugarte nel film di Almodòvar, Julieta. Nulla per il tedesco Toni Erdmann, né per Bruno Dumont o i Dardenne.

 

Ondata di star con un De Niro che ormai si accontenta di caricaturare sé stesso, distruggendo il proprio mito (ma perché non fa cinema vero come Al Pacino e non invecchia bene?), un Di Caprio serioso e le bellissime di turno.

 

Ma il concorso è apparso troppo tirato e di buon cinema ne è uscito poco, tra social e mèlo. Quello lo si deve cercare nelle sezioni collaterali ormai, come in altri festival perché a Cannes commercio, mondanità e apparenza contano più del cinema in sé stesso.

 

Un tema tuttavia riemerge come una sorgente sotterranea, ed è quello che hanno presentato in concorso i lavori iraniani, rumeni e filippini, in particolare: il dramma della miseria, del non- amore, dell’emarginazione.

 

La solitudine dell’essere umano oggi sembra la nota dominante in tutti i lavori, dai più scaltri ai più riusciti. Forse è questo pensiero che alla fine ha portato a premiare un film, anche se retorico come quello di Ken Loach? Misteri del lavoro di giuria.

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