Iraq, la fine di una guerra o di un’occupazione?

Cerimonia a Baghdad per la fine della presenza militare statunitense nel Paese. Nove anni tragici che lasciano un'economia e una democrazia fragili e incerte
Ritiro delle truppe dall'Iraq
Ricorderò sempre la telefonata con il vescovo caldeo di Baghdad, Salomone Warduni, alla vigilia dell’attacco statunitense nel sud dell’Iraq: «Se i marines attaccano – mi disse –, tra dieci anni ci troveremo in situazione peggiore dell’attuale».

E allora bisogna chiederselo: la situazione è peggiorata rispetto a quella della primavera del 2003, 8 anni, 8 mesi e 26 giorni dopo l’invasione militare? Difficile dare una risposta. Certamente, per la comunità cristiana del Paese, la situazione è notevolmente peggiorata: insicurezza costante – è di due giorni fa l’assassinio di una coppia cristiana a Mosul –, emigrazione massiccia, si parla di metà della comunità, che prima della guerra contava 700 mila fedeli; precarietà economica crescente; discriminazioni snella vita civile e politica.

 

Ma per il Paese nel suo complesso? Certamente non c’è più quel fanatico e odioso dittatore che era Saddam Hussein, così come non c’è più il suo partito Bahat che gestiva il potere con mano assoluta e corruzione diffusa. Ma il governo in carica è estremamente fragile, e le lotte tra sciiti e sunniti non sono certo terminate, con la presenza del vicino iraniano sempre più ingombrante. La democrazia elettorale, che George W. Bush voleva esportare, non è certo la forma di potere più confacente alla mentalità locale. Al-Qaeda, poi, non è stata eliminata con questa guerra, anzi è stata rafforzata negli anni da un campo di battaglia che si è rivelato per l’organizzazione terroristica uno stagno torbido in cui pescare a piene mani.

 

E la produzione di petrolio? Non ha ancora raggiunto i livelli anteguerra, e l’economia del Paese è ancora malata, non solo convalescente. Un vantaggio l’hanno avuto i curdi, certamente, che nel nord del Paese sembrano vivere in un’indipendenza tacita e silenziosa, ma reale. Ma non si può dimenticare che sul terreno sono rimasti 4487 soldati americani uccisi e 38 mila feriti, e soprattutto una cifra quantificabile tra 100 e 200 mila di iracheni morti ammazzati per la guerra e le conseguenze della guerra (circa 600 mila sarebbero i feriti). Una guerra che è costata la bellezza di 800 miliardi di dollari. Cioè 25 manovre salva-Italia del governo Monti.

 

La cerimonia d’addio, alla presenza del segretario di Stato americano alla difesa, Panetta, del presidente iracheno Talabani e del suo premier al-Maliki, si è svolta in una base trasformata in bunker iperdifeso, per prevenire attentati dell’ultima ora, a testimonianza della ancora persistente insicurezza che regna nel Paese. Senza poi parlare del danno forse irreparabile d’immagine che gli Stati Uniti e in genere gli occidentali hanno avuto da una guerra infinita.

 

Nella festa dell’Immacolata del 2002, papa Wojtyla malato rese omaggio alla statua della Vergine in Piazza di Spagna. Non riuscì a proferire che poche parole strozzate: «Pace, pace, pace…». L’appello rimase inascoltato. Oggi dobbiamo riconoscere che evitare quella guerra sarebbe stato un atto di grande saggezza. Perché la situazione in Iraq è peggiorata con la guerra. E siamo ancora qui a invocare la pace.

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