Ha ricevuto 300 premi lungo la sua carriera, ha debuttato come prima ballerina al Palazzo dei Congressi del Cremlino, è stata nominata étoile del Teatro alla Scala. Liliana Cosi è una focolarina la cui professione artistica è stata un dono per gli altri. Di lei tratta un nuovo filmato da poco in lavorazione.
Come è nata la sua passione per il balletto?
A 9 anni i miei genitori mi hanno iscritta alla scuola della Scala a Milano, a quel tempo gratuita. Nonostante fossi portata, mi è sempre costato ballare, gli esercizi non mi riuscivano facilmente. Ero “fanatica” di far bene le cose: più ripetevo un esercizio, più capivo che veniva pulito, leggero, senza sbavature. A 18 anni mi sono diplomata come migliore allieva.
Come è iniziata la sua carriera professionale come ballerina?
Nel 1963 si sono aperti gli scambi culturali con la Russia e sono andata a fare uno stage al Teatro Bolshoi di Mosca. Lì ho percepito la professionalità dei ballerini, il rispetto per l’arte, il teatro e gli artisti, e mi si è rafforzato l’amore per il balletto… si è riaccesa la passione per la danza. L’anno dopo sono ritornata e i maestri russi hanno deciso di regalarmi la possibilità di fare uno spettacolo, difficilissimo, come prima ballerina: Il lago dei cigni. Ho sempre apprezzato questa loro generosità; hanno colto in me un talento che non sapevo di avere, lo hanno coltivato e sviluppato, addirittura mi hanno fatto il fiocco. Ho mandato un telegramma con la notizia alla Scala, dove facevo parte del corpo di ballo, e subito mi hanno dato una promozione facendomi diventare ballerina solista.
Tra questi due viaggi a Mosca è capitato qualcosa che ha segnato la sua vita…
Sì, ho conosciuto il Movimento dei Focolari. Vengo da una famiglia non praticante, ma già durante l’adolescenza avevo iniziato ad andare in chiesa. Una volta mi capita di portare un maglione di un gruppo di ragazze di cui mi impressiona il sorriso limpido. Chiedendo chi siano, mi rispondono: «Noi cerchiamo di vedere Gesù nel prossimo». Di ritorno alla Scala penso a queste parole e mi fermo in una chiesa. Lì mi trovo bene, funziona tutto, sembra che qualcuno mi capisca… Dal tabernacolo intuisco una domanda: «Non hai capito che io sono nel prossimo?». Mi prende un colpo, perché il prossimo sono i colleghi della Scala, con cui non ho alcun rapporto. Intorno a me non c’è un ambiente bello, le mie compagne sono invidiose e mi chiamano “la superba” perché sono molto seria. Uscendo dalla chiesa, faccio il sorriso più bello che posso per cercare di vedere Gesù in loro, e vedono una Liliana completamente diversa. Sono tornata da quelle ragazze. Una volta mi hanno portata a Torino e in macchina parlavano di “Gesù abbandonato”. Per me era una cosa forte, non ero abituata a discorsi così profondi. Mentre le focolarine parlavano, mi è venuto un forte mal di testa. Quando hanno detto che «ogni dolore è sacro», ho pensato di non dovermi chiudere in me stessa, ma di partecipare ai loro discorsi. Il dolore è andato via subito; ho capito che l’amore è più grande del dolore.
Cos’è successo dopo?
Una volta con la compagnia della Scala siamo andate a ballare a Trieste e anche lì sono andata a trovare le focolarine. C’era una ragazza che faceva le pulizie e mi ha fatto ascoltare una registrazione di Chiara Lubich che raccontava di quando ha sentito la chiamata di Dio, a 23 anni, la stessa età che avevo io. Quella sensazione che il Cielo si aprisse sopra di lei e una voce le dicesse «datti tutta a me» mi è piaciuta da matti, sembrava che lo dicesse a me. Mi sono sentita accecata, come quando guardi il sole; tutto è diventato nero: il balletto, la Scala, la famiglia futura… Tornando a Milano sono andata dalla responsabile del focolare e le ho detto di voler fare come Chiara. Ho provato una forte delusione quando, visto il mio mestiere, si è pensato prima di chiedere il permesso a Chiara, e poi di far venire con me in Russia Valeria Ronchetti, una delle sue prime compagne. Confesso che nel mio cuore ho “giudicato” Chiara, pensando che lei non sapesse che nel mio ambiente era impossibile vivere il Vangelo. Invece Valeria è venuta a Mosca con me, non per conquistare i russi, ma per trasformare il mio sguardo, perché cercassi di vivere l’ideale nel mio lavoro. Ho notato il tempismo di Dio: come ho deciso di darmi a Lui, è iniziata la mia carriera.
Come ha capito che seguire la sua professione e consegnarsi totalmente a Dio erano due facce della stessa medaglia?
Quando ho ascoltato quella voce di Chiara, quella sua chiamata, mi sono immedesimata in lei, sentivo che Dio mi aveva guardata… Certo, non avrei mai immaginato di dover continuare a ballare, non pensavo che a Dio potesse interessare il balletto, dove si fanno vedere le gambe e il corpo viene molto in evidenza. Ma a Chiara questo non ha mai dato fastidio, perché vedeva i nostri talenti come dono di Dio, apprezzava la vocazione artistica, l’importante era che sviluppassimo le nostre capacità per gli altri. Questa è stata la genialità di Chiara.

Liliana Cosi nella “Morte del cigno” di Camille SaintSaëns, coreografia di Michel Fokine.
Come ha vissuto, da consacrata, questa relazione col suo corpo e il dover attrarre gli sguardi verso la bellezza?
Quando ho cominciato a studiare balletto, il rapporto con la bellezza era nella perfezione dei movimenti. Noi ballerini balliamo col corpo, io dovevo cercare di renderlo armonioso perché parlasse di quello che sentivo dentro, ovvero la bellezza e l’amore di Dio per tutti. Non sono solo gli allenamenti che ti rendono bella ma come tu vivi, cosa pensi, cosa fai… è dal di dentro che viene fuori la bellezza, da come tu ami. Chiara diceva che l’arte è saper trasfondere quello che nell’anima non muore, la parte migliore, quello che io sapevo di dover dare agli altri. Ho sempre sperato che attraverso la difficile e faticosa tecnica del balletto arrivasse il mio voler portare qualcosa di bello al pubblico, che loro vedessero più la mia anima che non il mio corpo, che essa fosse più protagonista.
Come ballerina, quali sacrifici ha fatto?
Essere un’artista è una missione, una responsabilità. Gli artisti erano grandi tanto quanto avevano una vita dura, sofferente. Nella mia vita ho fatto pochi spettacoli in piena salute. Per tre anni ho avuto dolore al nervo sciatico, nel 1982 ho rotto un legamento della caviglia. Da allora ho avuto un problema col piede sinistro che si è aggravato e mi ha fatto molto male, ma non mi ha impedito di ballare. Mi sorprendeva che la gente non se ne accorgesse, perché io andavo oltre il male. Per me era come una specie di purificazione personale per dare il meglio di me agli altri, qualcosa che restasse. Questo coincideva con la mia vocazione, che è Gesù abbandonato. Quando ho incontrato Marinel Stefanescu, primo ballerino rumeno con grande amore per balletto, musica e coreografia, lui ha capito che Gesù era al centro di quello che facevo e mi ha detto: «Se tu lavori per Dio, dovresti essere la miglior ballerina del mondo». In effetti, se il mio lavoro è per Dio, lo devo fare benissimo, e il mio obiettivo deve essere l’armonia, la bellezza… Spesso si dice che la fede ti taglia le ali, ma non è vero! A me le ha fatte diventare più grandi, mi ha fatto fare anche quello che non avrei mai immaginato. Se non fosse stato per Dio, non avrei fatto tutte quelle fatiche, non ne sarebbe valsa la pena. Questo è stato il metodo che Dio ha usato per mantenermi pura.

Liliana Cosi e Marinel Stefanescu in “Patetica”
di Čajkovskij, coreografata da Stefanescu.
Cosa ha significato nella sua carriera professionale la figura di Marinel Stefanescu, da poco venuto a mancare?
Posso dire che ha avuto un ruolo fondamentale perché in lui ho incontrato la persona giusta per realizzare due grandi sogni: il primo portare al grande pubblico, in Italia e poi nel mondo, il balletto come espressione di vera arte; e il secondo far passare tutta la nostra esperienza ai giovani creando un centro di formazione professionale di balletto classico. Marinel con la nostra Compagnia ha prodotto una ventina di nuovi spettacoli che abbiamo portato in tournée dalla Cina all’America, dal Giappone al Vaticano e in tutta Europa, oltre a toccare centinaia di città grandi e piccole in tutta Italia. Poi abbiamo diplomato tanti giovani che ancora oggi operano in tante compagnie sia in Italia che all’estero e molti a loro volta insegnano. Le sue coreografie erano classiche ma nuove, cariche di tanto significato che arrivava e piaceva molto al pubblico. Sono sempre piaciute anche a Chiara Lubich.
Lei ha avuto grandi successi: di quali si sente più fiera o più grata?
Il successo era sempre un problema, perché al Cremlino, dove ho debuttato come prima ballerina, avevo 6 mila persone che applaudivano, fiori che mi arrivavano… Non sapevo che comportamento avere nell’anima, perché non volevo insuperbirmi, ma non potevo neanche fare l’umile. Vale mi ha fatto notare che non avevo l’anima centrata quando prendevo gli applausi, non ero io. Mi ha detto che se facevo tutto per Gesù, il protagonista era Lui. Allora ho sentito una libertà incredibile, tutta la mia vita l’ho dedicata a Lui, anche gli applausi.
Quali differenze ha trovato tra il mondo del balletto russo e quello italiano?
I russi li ho trovati più profondi, meno superficiali. In Italia vedevo più materialismo, si andava dietro l’apparire, mentre in Russia contavano i valori, l’arte, c’era più ricchezza d’animo. Gli artisti erano personaggi importanti che avevano qualcosa da dire, c’era un rispetto per l’arte incredibile. Al Bolshoi la mia maestra mi disse che l’attore e regista Stanislavskij parlava dell’arte come strumento per elevare lo spirito dell’uomo. Mi sembra una ricchezza grandissima, perché se lo spirito è più elevato, si ha un’altra visione della vita.
È importante che i lavoratori si mettano in rete con altri professionisti?
Io sono fanatica delle “inondazioni”, le reti di professionisti che vivono la spiritualità dell’unità. Chiara Lubich diceva che sono il futuro dell’Opera, le chiamava “vocazioni civili”. Bisognerebbe promuovere tanti incontri, sempre più ampi, per migliorare i mondi dell’educazione, dell’arte… per gli altri, non per se stessi.
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