Infermiera io? Mai!

Un premio in Mozambico, l’impegno al servizio della persona e a tutela della vita, l’insegnamento. La “raccolta“ di Maria Clara Tortorelli.
Maria Clara Tornelli

Per più di vent’anni Maria Clara è stata docente di scienze infermieristiche al polo didattico di Pozzuoli, la sua città. Infermiera da una vita e con una lunga esperienza professionale anche in Mozambico, mi spiazza confidando come da giovane lei non fosse affatto orientata a questo tipo di lavoro. Come c’è arrivata allora?

 

«Mossa dall’esigenza di una maggiore giustizia sociale – inizia a raccontare –, fin da ragazza cercavo di impegnarmi per gli ultimi. Avevo 23 anni e insegnavo da quattro con passione: pensando di dare in qualche posto dell’Africa un contributo in questo campo, mi consigliai con l’allora responsabile dei laici che presso le missioni dei cappuccini desideravano fare questo tipo di esperienza: padre Bonaventura da Malè. Con l’occasione, venni a sapere di Chiara Lubich, una laica che aveva scelto Dio come ideale della sua vita, e della corrente di vita evangelica che ne era nata. Non occorreva altro per sentirmi incoraggiata a superare le tante difficoltà opposte dai miei a motivo di questa scelta!

 

«Ma quando padre Bonaventura mi propose: “Dovrai andare in una regione africana grande quanto il Triveneto dove non ci sono infermieri né medici… Preparati a dare un aiuto in questo settore”, la mia risposta fu un rifiuto netto: “Infermiera io? Mai!”. Al che, fissandomi, con solennità aggiunse: “Se è volontà di Dio, farai l’infermiera”. Ed io: “Non penso che Dio possa chiedermi proprio questo”. Ma ormai l’idea della volontà di Dio non mi si toglieva dalla mente e…».

 

…ed è finita come tu non avresti mai immaginato!

«Proprio così. Il progetto che l’Eterno Padre aveva su di me era molto più bello di qualunque mio! Di recente padre Bonaventura mi ha scritto: “Sono stato, a mia insaputa, un piccolo cartello stradale che ti ha indicato o confermato la via pensata per te dall’amore di Dio».

 

Raccontami ora del periodo in Mozambico.

«È stato dal ’71 al ’78. Arrivata a Munhamade, nella Zambesia Centrale, ricevetti da Fontem, Camerun, questo messaggio di Marilen Holzhauser, una delle prime focolarine: “Ricordati che sei lì non tanto per fare l’infermiera, quanto per essere operaia di quest’opera”, intendendo dire: ciò che conta è testimoniare Cristo col proprio vissuto. Era il due febbraio ed io ero a letto per il primo attacco di malaria. Fu l’incentivo per un “sì” più radicale a ciò che Dio mi avrebbe chiesto, pronta anche a dare la vita con quanti lì vivevano l’Ideale di Chiara. Con la nuova sensibilità acquisita con la spiritualità dell’unità, mi resi conto che era importante non solo curare gli ammalati, ma anche formare il personale sanitario in uno spirito di reciprocità. Ancora oggi sono attivi lì infermieri e ostetriche insieme ai quali ho vissuto tante esperienze. Una in particolare ricordo, quella con i numerosi lebbrosi del territorio. A motivo delle disposizioni governative durante il colonialismo, vivevano nascosti per paura di essere isolati in un lebbrosario. Solo dopo aver conosciuto il murima, cioè il cuore di quanti lavoravamo in ospedale, cominciarono ad affidarsi alle nostre cure, affermando di aver trovato da noi il “sole”».

 

Momenti veramente critici  affrontati?

 «Ad esempio dovetti trasferirmi per un lungo periodo in un territorio dove un’epidemia di colera stava provocando centinaia di morti. Ogni giorno una fiumana di pazienti raggiungeva un ospedaletto senza medici e infermieri. Unica a saper aggredire una vena e col reparto maternità affollatissimo, lavoravo notte e giorno con un crescente senso d’impotenza. Qualcuno mi ricordò allora la Parola di vita di quel mese: era sulla confidenza in Dio. Così il giorno dopo, mentre ero “ travolta” dal gran numero di colerosi e partorienti, mi rifugiai in cappella a chiedere aiuto a Gesù per poi concentrarmi nel daffare dell’attimo presente. Riuscii perfino ad allontanarmi dall’ospedale per far visita ad una famiglia indiana impossibilitata a muoversi. A fine giornata trovai che tutti erano stati “accolti”. Inoltre quel pomeriggio, per la prima volta, non erano arrivati pazienti con colera. In seguito anche l’epidemia andò diminuendo. È proprio vero: ti sforzi di aderire a Dio nel presente, e dai spazio a lui di prendersi cura di noi».

 

In quel periodo ti è stato assegnato perfino un premio…

«Dopo il colpo di Stato e l’indipendenza del Paese, la Chiesa locale viveva un periodo di persecuzione. Ciò nonostante ricevetti dal ministro della Sanità il premio di emulazione socialista come “migliore infermiere”. Cercando di essere l’“operaia” di cui parlava Marilen, mi ritrovavo con un riconoscimento civile che sentivo non appartenermi in quanto frutto solo del carisma dell’unità: ciò che ho sperimentato tante volte anche al mio ritorno in Italia».

 

Qui sei stata impegnata a lungo nell’assistenza diretta. Cosa ha significato seguire l’intero arco dell’esistenza umana dal suo nascere al suo tramonto?

 «Con la stessa sacralità con cui accoglievo una nuova nascita (come quella di un buon numero di neonati destinati a non nascere), ho potuto anche accompagnare tanti nel fine vita».

 

In seguito sei stata incaricata della formazione degli infermieri…

«Sì, nella scuola regionale e poi nel corso di laurea in infermieristica. Tanti pensavano che questo incarico fosse dovuto ad una potente raccomandazione (si trattava di un posto molto ambito e quindi, come spesso accade, cercato a tutti i costi). Come spiegare che avevo puntato solo a vivere il “cercate il regno di Dio e tutto il resto vi sarà dato in soprappiù”? Sì, in effetti avevo una forte raccomandazione: quella dell’Eterno Padre!».

 

Immagino le difficoltà nell’ambiente…

«Sì, e sono state tante. Non potevano mancare, date le premesse. Riuscivo però a non mollare, anzi a ricambiare con piccoli gesti d’amicizia, grazie anche al sostegno degli amici del movimento. Il risultato? Sentirmi dire in varie occasioni: “ Sono orgoglioso di lavorare con una come te”; “Le tue lezioni, le tue esperienze hanno aiutato anche me in situazioni difficili”; “Hai rispettato sempre i ruoli, anche quando non venivi trattata bene”. Nello stesso tempo vedevo crescere il mio ruolo e la mia professionalità; e diverse iniziative venivano portate avanti insieme per migliorare la qualità della formazione con ricadute positive sull’assistenza».

 

Qualche esempio?

«Una lezione sul bisogno del bello tenuta dall’artista Michel Pochet all’università, a conclusione di un progetto realizzato dai tirocinanti del corso di laurea sul valore terapeutico della bellezza. E ancora: un convegno sull’assistenza al paziente morente dal titolo “Umanizzare la morte per vivere la vita”, convegno patrocinato dall’università e realizzato con la collaborazione di Umanità Nuova e dell’associazione culturale Mdc (Medicina Dialogo Comunione).

«Senza contare che ho sempre cercato di passare agli studenti le mie idee‑forza, anche utilizzando articoli di Città Nuova».

 

Il pensionamento nel luglio 2010 è stato un momento di “raccolta” di quanto hai seminato, vero?

«Durante la festa che studenti e colleghi hanno organizzato per me, ho voluto anch’io fare un dono a tutti loro: una sorta di vademecum dove i punti dell’“arte di amare” attinti da Chiara Lubich e tradotti nell’ambito sanitario e assistenziale, costituivano la base di ogni momento teorico e pratico. Ecco alcune impressioni: “E’ tutto quello che ci ha insegnato in questi anni e che noi abbiamo cercato di mettere in pratica”; “È la sintesi del suo percorso professionale”; “Lo porto sempre con me e lo tiro fuori soprattutto nei momenti difficili”. Mi ha colpito in particolare il commento di un primario d’estrazione laica: “La docente è riuscita a trasmettere il suo personale messaggio di cristianesimo, ha portato avanti il suo pensiero, il suo percorso, con estrema coerenza”». 

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