In cerca di valori grandi

La giornata di studio “Giovani e forti...?”, promossa dall'associazione Papaboys, ha dato l'immagine di una nuova generazione che vuole puntare in alto
giovani

«Trasmettete questo al mondo: se riusciamo a guardare la vita attraverso gli occhi di Dio, allora le cose funzionano». Con queste parole don Walter Trovato, assistente spirituale dell’associazione nazionale Papaboys, ha aperto la giornata di studio “Giovani e forti…?”. Un momento di riflessione con, su e per i giovani, organizzato dall’associazione e dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri a Roma, i cui relatori hanno toccato una decina di temi – dall’istruzione, al lavoro, all’immigrazione, ai media – in relazione a questa fascia d’età.

 

Dopo due rettori universitari – padre Pedro Barrajòn, dell’ateneo Regina Apostolorum, e Luigi Frati, de La Sapienza – , che si sono soffermati in particolare sui risvolti etici della formazione in relazione ai valori cristiani, la parola è passata a Musa Maroofi, ambasciatore afghano in Italia. I giovani, secondo il diplomatico, rivestono un ruolo particolare nel suo Paese: dopo la rivoluzione del 1978, infatti, ha preso il via un’ondata migratoria, che si è parzialmente invertita nel 2002 con la costituzione del nuovo Afghanistan. Questo ha però portato a «un punto di svolta sociologico: la società si è divisa tra chi è nato o cresciuto all’estero, con altre idee e valori, e chi invece è rimasto e ha subito l’oppressione». Nel ricostruire un Paese distrutto, la chiave di volta è «una gioventù istruita: ci sono oggi 25 università, per la prima volta il ministero della Cultura ha un dipartimento per la gioventù, e l’associazionismo è in forte crescita». Di fronte alle divisioni etniche, linguistiche, di genere e sociali che ancora percorrono il Paese, l’ambasciatore ritiene che «lo strumento più efficace per sanarle è la nuova Costituzione, che sancisce l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge. I cambiamenti non possono avvenire da un giorno all’altro, ma bisogna prima creare il quadro normativo».  Il solo vero problema rimasto, dice, «è quello del terrorismo, il cui obiettivo non è l’Afghanistan, ma la comunità internazionale nel suo insieme».

 

Nella sezione su giovani e Chiesa si è posta come centrale la figura di Giovanni Paolo II. Bruno Mastroianni, docente di media relations alla pontificia università della Santa Croce, ha notato come, secondo un’inchiesta, «le reazioni dei giovani davanti al suo messaggio erano tre: la prima, “non avevo mai sentito queste cose”; la seconda, “non so se riuscirò a viverle”; la terza, “però ha ragione”». Il perché del successo del papa polacco nel comunicare con i giovani è una domanda ricorrente: don Fabio Rosini, incaricato del servizio vocazioni per il vicariato di Roma, lo ha spiegato con la sua capacità di «presentare un modello autentico e radicale, senza fare sconti. La Chiesa è seguita dai giovani solo quando è così, perché Cristo era così». A giocare un ruolo decisivo nella conversione di don Rosini è infatti stata proprio una frase poco nota di questo papa: «Vale la pena di essere uomini perché Cristo è stato uomo».

 

Il nome di Wojtila è tornato anche nella discussione su giovani e media, tramite le parole della giornalista vaticanista Angela Ambrogetti. Nel sottolineare l’importanza del recupero della memoria nell’informazione, ha osservato come, nel rivedere alcune conversazioni con i giornalisti tenute da Giovanni Paolo II, le ha trovate «ancora più interessanti, sebbene fossero passati trent’anni». Per questo, urge rivedere «il concetto di “stare sulla notizia”: per un cristiano non è fornirla nel minor tempo possibile, ma saper andare oltre e dentro la notizia. E questa mancanza di profondità è uno dei problemi dell’informazione attuale che i cristiani possono risolvere bene». In fondo, «anche il Vangelo è notizia: anzi, è la notizia!».

 

Particolarmente dibattuto è stato il tema dei giovani e dell’immigrazione, sopratutto in relazione alla condizione di chi nasce in Italia da genitori stranieri – 78 mila bambini l’anno – ma, come ha fatto notare Mansouri Moustapha, presidente di Nuovi italiani partito immigrati, «pur parlando il dialetto locale, tifando e giocando nelle stesse squadre, per la legge è uno straniero». Una legge unica in Europa fatta, come ha osservato il deputato Andrea Sarubbi, «vent’anni fa, quando nascevano appena 7 mila figli di immigrati». Una condizione che, in prospettiva, va sanata, ma che si scontra «con la volontà di chi – afferma Mustapha – ne vuole fare speculazione politica».

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