Il villaggio di cartone

Esce oggi nelle sale l'ultima opera di Ermanno Olmi: un testamento spirituale e una dichiarazione d’amore, senza rinunciare alla provocazione
il villaggio di cartone

Quando si arriva agli ottant’anni, fare una sintesi della propria vita diventa inevitabile. Almeno per chi è abituato a riflettere. Scorrono questi pensieri vedendo Il villaggio di cartone, ultimo film del regista bergamasco. Commovente in diversi momenti per la poesia, la profondità dei contenuti realizzati da un maestro della recitazioni e delle immagini. Meno quando una certa carica di denuncia sociale, presente fin dalle prime opere, sfiora la retorica, per quanto sincera. Sarà per questo che qualche critico, uscendo di sala, ha arrischiato a dire che «Olmi ha perso la bussola»?

 

Non direi proprio. Olmi si pone su un piano molto alto in un film che è parabola, riflessione esistenziale, e certo anche denuncia e bisogno di profezia. Varie direzioni, esteriormente non perfettamente legate, ma sembra che al regista non interessi molto. Quello che pare gli prema è dire, in un racconto che sa di testamento spirituale ed artistico, ciò che pensa della vita, dell’umanità, della Chiesa cristiana, del nostro tempo.

 

Olmi forse si identifica col vecchio prete cui demoliscono la chiesa, lasciando solo le mura. È qui da sempre, qui vuole morire. La scena della "deposizione" del Crocifisso, ripresa volteggiando dall’alto, è di una tristezza drammatica: un mondo che scompare. Cristo muore di nuovo? Non per nulla il prete si porterà via una minuscola Deposizione davanti cui esporre i propri dubbi: è meglio la fede o fare il bene? Ha fatto bene a farsi prete per aiutare il prossimo, quando anche chi non crede lo può fare? E quello sguardo di donna, visto a 28 anni da giovane prete, che lo ha tormentato tutta la vita? Come lo accoglierà Dio ora che si avvia alla morte? Intorno a lui vivono personaggi colti nell’essenziale di un gesto, una parola: il sagrestano conformista, il medico ebreo ateo, con cui dialoga a cuore aperto.

 

In questa autentica notte spirituale, dove il dubbio si sfoga amaramente, la vita riserva delle sorprese. Nella notte tempestosa, arrivano furtivi i profughi africani. Sono loro a far illuminare il cuore rinsecchito del prete che lentamente ritrova la voglia di amare, di rischiare per l’amore, come gli fa dire il regista. C’è un’umanità multiforme: la prostituta, la madre vedova col piccolo, il giovane che si vuol far saltare per aria, l’ingegnere, i connazionali truffatori….Il prete con le sue scarse forze aiuta, si oppone a viso aperto alla polizia, canta un inno natalizio solo accanto all’altare vedendo una madre col piccolo, anche se non è tempo di Natale. Ma è sempre tempo di vita. E la denuncia che affiora in certe frasi è proprio ciò che sta sotto a tutto il film: oggi è il tempo di rischiare per l’amore, per la vita.

 

Olmi sogna un altro cristianesimo, un altro modo di accogliere la gente. Forse un altro tipo di Stato o di Chiesa? Per quanto la storia sia davvero minuscola e sembri un pretesto per riflettere a voce alta sul nostro tempo e su ciò che ci fa uomini (il che filmicamente provoca certo dei dislivelli), le parole estreme di Olmi restano una conferma di ciò che egli sempre ha voluto mostrare nei film: l’amore per la natura e per la dignità dell’uomo. Perché fare il bene vale più della fede, farà dire al vecchio prete che ha ritrovato sé stesso grazie ai “fratelli” africani, uno dei quali lo illumina dicendogli:«Dio è misericordioso».

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