Il vangelo del perdono a Sarajevo

La croce crivellata di colpi usata durante la celebrazione

Papa Francesco ha molto insistito nel suo viaggio in Bosnia sul definire Sarajevo Gerusalemme d’Europa, ad indicare la convivenza difficile e drammatica tra culture e tradizioni spirituali diverse. Ma non ha mancato di sottolineare la forza della città nell’uscire dalla logica del conflitto e scoprire la logica del dialogo, i cui segni sembrano fiorire in questa terra.

 

In questi venti anni abbiamo vissuto una storia tragica nei Balcani, di cui tutti sono stati protagonisti: i cattolici, gli ortodossi, i musulmani, gli ebrei. Tutti hanno pagato un prezzo e tutti sono stati complici e protagonisti della violenza e della guerra.

 

Senza dimenticare nessuna storia di dolore nella sua unicità, tutti hanno bisogno di perdonare e di essere perdonati, a partire dal ruolo svolto durante il conflitto, senza autogiustificazioni e senza assoluzioni di comodo, imparando a vedere la storia con gli occhi del nemico.

 

Allo stesso modo cogliamo il mistero di Gerusalemme dal nuovo testamento: è la città della violenza, quella che uccide i profeti e non riconosce la visita di Dio, ma al tempo stesso è la città del servo di Dio, dell’agnello e del messia povero e pacifico.

 

Sarajevo contiene in sé, nella storia di questi venti anni, questo crogiolo di pace e di guerra. Per questo papa Francesco, nell’omelia allo stadio, definisce la parola pace «parola profetica per eccellenza! Pace è il sogno di Dio, è il progetto di Dio per l’umanità, per la storia, con tutto il creato. Ed è un progetto che incontra sempre opposizione da parte dell’uomo e del maligno. Anche nel nostro tempo l’aspirazione alla pace e l’impegno per costruirla si scontrano con il fatto che nel mondo sono in atto numerosi conflitti armati. È una sorta di terza guerra mondiale combattuta “a pezzi”e nel contesto della comunicazione globale, si percepisce un clima di guerra».

 

Nessuna retorica sulla guerra, ma la nuda narrazione della sofferenza che la guerra produce nella vita delle persone e la consapevolezza che il tempo della guerra stia tornando. «La guerra significa bambini, donne e anziani nei campi profughi; significa case, strade, fabbriche distrutte; significa soprattutto tante vite spezzate. Voi lo sapete bene per averlo sperimentato proprio qui: quanta sofferenza, quanta distruzione, quanto dolore! Oggi, cari fratelli e sorelle, si leva ancora una volta da questa città il grido del popolo di Dio e di tutti gli uomini e le donne di buona volontà: mai più la guerra».

 

In questo modo papa Francesco sceglie di guardare il conflitto: dalla parte delle vittime. Non la guerra come dottrina, non la guerra come politica, ma la guerra giudicata con gli occhi dei più piccoli, dei più deboli. Il loro grido sale a Dio e da Dio è ascoltato. Il grido come preghiera delle vittime. Questo grido è partito da Lampedusa per arrivare in Siria, a Betlemme, a Erbil fino a Sarajevo. Un grido come denuncia della violenza, un grido che è la voce mite e forte di tutte le persone di buona volontà.

 

Aveva iniziato papa Giovanni nel 1962, durante la crisi di Cuba. Oggi arriviamo a papa Francesco, che fa della preghiera delle vittime il cuore stesso dell’agire dei credenti. Il papa sa che la storia non la fanno i potenti, i politici, i mercanti di armi, ma la storia di Dio è fatta dagli umili. Solo le vittime fanno la pace. Solo per le vittime la pace non è retorica o ragionamento sofistico, ma è un agire. Serve osare la pace quando tutti cercano la guerra e la sua giustificazione.

 

Papa Francesco riprende la beatitudine degli operatori di pace, secondo la parola di Gesù: «Beati gli operatori di pace, perché saranno chiamati figli di Dio». Il passivo divino indica l’agire di Dio. È Dio che chiama beati coloro che fanno la pace, perché la fanno a misura del Figlio, che «ha fatto la pace per mezzo del sangue della croce». Il verbo, in Matteo e in Paolo è lo stesso, eirenen poiein.

 

Giustamente il papa osserva che Gesù «non dice “beati i predicatori di pace”». Tutti sono capaci di predicarla, anche in maniera ipocrita o addirittura menzognera. Fare la pace è un lavoro artigianale: richiede passione, pazienza, esperienza, tenacia. Beati sono coloro che seminano pace con le loro azioni quotidiane, con atteggiamenti e gesti di servizio, di fraternità, di dialogo e di misericordia.

 

L’arte della pace non è una sapienza mondana, una ideologia, una teologia, ma è l’arte della croce, dell’agnello sgozzato, della vittima. Papa Francesco riprende il profeta Isaia dichiarando: «praticare la giustizia darà la pace». È la giustizia di Abele il giusto. È la giustizia dell’innocente, che cambia la storia, per cui il papa dice: «non una giustizia declamata, teorizzata, pianificata, ma la giustizia praticata, vissuta». Dunque la giustizia è opera dei giusti di Dio, da Abele a Gesù.

 

Papa Francesco, tramite l’apostolo Paolo indica  gli atteggiamenti necessari per fare la pace: «rivestitevi di sentimenti di tenerezza, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di magnanimità, sopportandovi a vicenda e perdonandovi gli uni gli altri. Come il Signore ha perdonato, perdonatevi».

 

Ecco l’appello radicale al perdono, che il papa lancia alle persone di Bosnia e di tutti i Balcani per arrivare ad ogni angolo della terra dall’Ucraina al Medio Oriente, alla Siria e all’Iraq. Solo il perdono prepara il futuro di questa terra e di tutte terre.

 

Ogni persona e ogni popolo è chiamato a confessare le sue responsabilità e a domandare perdono alle vittime della violenza. Senza perdono non c’è pace. Il perdono domanda la verità delle ferite, non il loro nascondimento e il loro oblio. Senza verità non c’è riconciliazione. Ascoltando un religioso, una religiosa e un prete che davano testimonianza del loro patire, il papa così ha commentato: «riprendere la memoria per fare pace e alcune parole mi sono rimaste nel cuore. Una ripetuta: perdono». 

 

Il papa consegna questa parola come dono per tutti i cristiani, a indicare che non c’è altra alternativa alla guerra, se non il vangelo dell’amore ai nemici fino a dare la vita per essi. Ma questa parola è anche giudizio su tutti coloro, che hanno alimentato la guerra per ragioni religiose, politiche, ecclesiastiche ed economiche, che hanno affidato alla guerra il loro presente e futuro e che hanno giustificato la guerra, bestemmiando Dio. Ecco la parola del vangelo, che squarcia il clima di guerra in cui stiamo vivendo.

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