Il tempo si è fermato alle 3.32

A oltre due anni dal terremoto in Abruzzo, un viaggio a L'Aquila e dintorni. Per vedere cosa si è mosso e cosa no
Terrremoto l'Aquila

Il cinema ha in cartellone “Gli amici del bar Margherita” di Pupi Avati, uscito il 3 aprile 2009. Anche alla pompa di benzina, l’ascesa dei prezzi del gasolio si è arrestata a 1,049. Ma probabilmente non è solo per questo che agli aquilani piacerebbe tornare indietro, a prima della scossa.

 

La sensazione che si ha passando per le strade del capoluogo abruzzese è quella di una città dove il tempo si è fermato, almeno nella zona rossa del centro storico. Qui, ancora oggi, nessuno può entrare: i militari sono ovunque a presidiarne gli ingressi. Ma è possibile sbirciare, attraverso le grate che chiudono l’imboccatura dei vicoli. Nessuno è andato a raccogliere i panni stesi sul balcone, ormai lisi dal tempo. Dai vetri rotti spuntano reti di letti, oppure tiranti che sorreggono la facciata della casa. Da una parete in parte crollata si vede chiaramente una cucina, con il centrotavola ancora al suo posto, coperto dai calcinacci. Una desolazione espressa molto bene da uno dei contributi letterari appesi ad una grata lungo la via principale, diventata una sorta di “bacheca” per gli aquilani, che vi hanno appeso foto, disegni, poesie e appelli a cittadini e autorità. Invita a “venire e vedere”, perché nessuna immagine né alcuna parola potrà mai essere altrettanto efficace. Sulla stessa grata, 309 nastri, con tanto di nomi, ricordano le vittime del terremoto.

 

In centro, i pochi negozi che hanno ripreso l’attività lo pubblicizzano in maniera assai vistosa: la maggior parte è ancora chiusa, causa inagibilità dell’edificio. Lecito chiedersi che fine avranno fatto i proprietari: avranno riaperto altrove? Saranno ancora senza lavoro, dopo due anni?

 

Nei vicoli, le uniche attività lavorative sembrano essere quella degli operai che sistemano le strade e quella dei tecnici che fanno rilievi. Ma sulle concessioni edilizie si legge perlopiù “opera di puntellamento”: la ricostruzione vera e propria non è iniziata, ne inizierà finché non verrà approvato il piano. Ad essere restaurate, per ora, sono soltanto le chiese. Intanto gli abitanti vivono da parenti, negli alberghi sulla costa, o nelle cosiddette new town: grandi palazzi poco fuori città, in una zona, però, senza alcun servizio. I piloni che li sorreggono, tecnologia antisismica di punta perché ondeggiano insieme al terreno in caso di scossa, sono alti – riferisce unarchitetto – due metri e mezzo: troppo poco per sfruttare il piano terra per farci un qualsiasi ufficio o negozio, rimangono buoni solo per i parcheggi. E dire che sarebbero bastati pochi centimetri in più, chi ha progettato non poteva non saperlo. Le malelingue dicono che è stato solo per poter costruire ancora in futuro, ma le ipotesi sono tante.

 

A Onna, dove le case rimaste in piedi si contano sulle dita di una mano, il senso di desolazione è ancora più forte. Nelle strade deserte è la polvere delle macerie a fare da padrona. Un contrasto stridente con le ridenti casette donate dalla provincia di Trento, raggruppate in un villaggio poco distante. Bello, non c’è che dire: giardini, vialetti in ghiaia, fontanelle, una chiesetta in legno, strade pulite e ordinate. Una famiglia sta falciando l’erba del prato, ci avviciniamo: appena sanno che siamo giornalisti ci dicono che no, con noi non vogliono parlare. Non è una questione personale, ma davvero sono stufi di questo pellegrinaggio di nostri colleghi, che continuano a chiedere sempre le stesse cose e poi a travisare le loro parole. Inutile, ce ne andiamo.

 

Non resta che concludere con le parole di uno dei fogli appesi lungo la via principale de L’Aquila: fate foto, fate domande, fate quello che vi pare, ma dite a tutti come stanno ancora le cose qui.

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