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Cultura > Cinema

Il ritorno del protagonismo

di Mario Dal Bello

- Fonte: Città Nuova

Due registi, Paul Schrader e Ferzan Ozpetek, in due lavori in cui parlano di sé stessi. Più di altre volte.

Uma Thurman, Paul Schrader, e Richard Gere alla presentazione di ‘Oh, Canada’ al Festival di Cannes 2024. Foto EPA/GUILLAUME HORCAJUELO

Era il 1980 e Richard Gere diventava una star in American Gigolo di Paul Schrader, icona ormai mediatica. I decenni sono passati e i due si ritrovano in un racconto che sa molto di autobiografia, ossia Oh Canada – I Tradimenti.

Un film che il regista ha voluto girare dopo aver passato una seria malattia ed infatti qui troviamo l’anziano Leonard File (Gere), uno dei 60mila che al tempo della guerra in Vietnam è scappato in Canada ed ora è diventato uno scrittore famoso. Ma è molto malato e si decide a farsi intervistare per dire finalmente a tutti, e a sua moglie, la verità su di sé. La moglie (Uma Thurman, perfetta) non vorrebbe, pensa che la memoria e le medicine lo confondano – e in parte avviene. L’uomo però è irremovibile: sa di dover morire e quindi almeno una volta non vuole mentire. Racconta di una giovinezza sbandata con donne e un figlio che non ha voluto riconoscere, il successo voluto e ottenuto, la libertà che sognava di trovare in Canada fuggendo dalla guerra ed ora la sua coscienza gli rimorde, raccontando i tradimenti della sua vita (la patria, l’amore, la vita stessa). La malattia può essere una forma di salvezza, almeno davanti a sé stesso per liberarsi dalla ipocrisia e dalla menzogna.

Schrader, 78 anni, è di fatto l’alter ego del personaggio. Lo dipinge ansioso di parlare, fermo nel dire di sé anche sconvolgendo la moglie, ne cura l’espressione con frequenti primi piani, dialoghi anche rudi e invettive contro la troupe televisiva e alterna bianco-e-nero al colore con i rimandi al passato dove viene interpretato dal giovane Jacob Elordi, che in realtà sembra un’altra persona anche fisicamente. Ma non importa. La star è ancora Richard Gere, anche lui non più giovane, perfetto nel mostrare la senilità e la morte a cui in verità sia lui che il regista sembra pensino molto sul serio. Ma anche in modo dolce, delicato alla fine, come succede ai registi che hanno il coraggio di presentarsi per quello che sono.

Il regista Ferzan Ozpetek con le attrici del cast durante il photocall a piazza di Spagna del film Diamanti, Roma, 12 dicembre 2024. ANSA/RICCARDO ANTIMIANI

Diamanti, ultima opera di Ozpetek, ben accolta in sala, è una storia di donne in una storica sartoria per cinema e teatro. Ma è quasi un racconto del regista su di sè, sui suoi attori e attrici, sul suo modo di fare cinema, tant’è vero che compare egli stesso più volte. E ciò può piacere o meno, ma Ozpetek è così, oggi più raffinato ancora e più, se possibile “femminista”. Racconta piccole e grandi storie delle donne della sartoria: la disinibita, la vittima del marito violento, l’indecisa, le due sorelle vittime di una storia passata infelice….E insieme costumi sfavillanti e iperbarocchi, una cuoca casareccia (Mara Venier, brava), un regista sciocco (Stefano Accorsi) e un risvolto favolistico e mangereccio, come sempre in Ozpetek, che in verità ormai si ripete. Ha una bella mano da regista, sa confezionare un prodotto ben fatto e gradevole, ma il narcisismo non sempre fa bene.

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