È “guerra” in molte scuole. Una guerra senza armi, silenziosa e persistente, che si consuma nei consigli di classe, nei collegi dei docenti, soprattutto lì dove si affronta il problema delle valutazioni, del merito, delle prove Invalsi, della metodologia. Ed è logico che se questa “guerra” permea l’attività didattica, inevitabilmente essa si riflette anche nella vita dell’istituto, a tutti i livelli, con conseguenze notevoli sulle nuove generazioni che acquisiscono la convinzione che il conflitto e la “guerra” siano connaturati con ogni esperienza umana. Ma sia ben chiaro che in ogni posto di lavoro, nella politica, nei condomini, nello sport… le cose non vanno diversamente. Allora è necessario convincersi che non è un problema della scuola, ma è un problema di carattere sociale e che sempre si presenta lì dove gli esseri umani sono chiamati a lavorare insieme.
Nella scuola, però, tale problema assuma una forte rilevanza in quando essa è il luogo deputato a formare e istruire i ragazzi e i giovani che saranno gli uomini di domani. Il pericolo che sempre si corre quando si affronta semplicisticamente un problema della scuola è quello di cercare un eventuale capro espiatorio: saranno gli alunni, saranno i docenti tradizionalisti, oppure i docenti innovatori. L’esperienza insegna che ognuna di questa scelte porta fuori strada, in quanto alunni e docenti costituiscono un unicum chiamato a realizzare insieme la scuola. Quindi non occorre “sparare” sui docenti se le cose non vanno bene, né sugli studenti. Poiché la conflittualità è latente oggi in quasi tutte le scuole, è fondamentale instaurare tra i docenti e tra docenti e alunni un dialogo anche su posizioni molto diverse, evitando che il confronto si trasformi in una vera e propria “guerra”.
Il problema però – ne abbiamo fatto spesso esperienza – diventa complesso, e di non facile soluzione, quando ci si trova in un consiglio di classe dove un gruppo di docenti vuole promuovere il ragazzo e l’altro gruppo lo vuole fermare. Non resta che mettere ai voti le opzioni. Ma ha senso in questo caso decidere secondo la legge della maggioranza? A parer mio i docenti non dovrebbero esser chiamati a valutare, ma solo a certificare il raggiungimento o meno di un determinato obiettivo. Il ragazzo deve essere cosciente che, se non ha superato la prova di matematica sui monomi, non potrà ancora eseguire la prova sui polinomi e così via, la propedeuticità fra le varie unità didattiche determina l’avanzamento in un percorso di conoscenze.
Ed è qui che la struttura del sistema scolastico deve cambiare radicalmente. La classe con il docente in cattedra non ha più senso di esistere, perché la scuola dell’obbligo ha aperto a tutti la possibilità di fare scuola ma molti studenti provengono da realtà sociali culturalmente fragili, da ambiti di povertà assoluta per cui lo stato inziale degli alunni è diversissimo l’uno dall’altro. Si comprende quindi che il sistema spiegazione-interrogazione è ormai insufficiente e spesso deleterio. Se il ragazzo non riesce a superare la prova sui monomi, il docente allora cerca di capire cosa blocca l’alunno attraverso un rapporto personale, in quanto la scuola di I e II grado dovrebbe essere soprattutto formativa, essendo essa la prima grande esperienza sociale che il ragazzo vive al di fuori della famiglia.
E proprio perché formativa, il consiglio di classe dovrebbe in maniera prioritaria individuare quei valori da porre a base dell’esperienza e fra questi valori il cosiddetto “bene relazionale“, senza il quale, come afferma lo psicologo Piero Cavaleri, ogni esperienza sociale rischia di franare miserabilmente nello scontro, nel conflitto perenne, nella “guerra”. Il problema serio nasce quando, ancora oggi, molti docenti in un istituto non condividono questo aspetto formativo della scuola e ritengono che essa debba essere essenzialmente esperienza di apprendimento di determinate conoscenze. E qui forse è necessario che il Ministero dell’Istruzione operi con più decisione e faccia chiarezza.
Le prove Invalsi attuali, nate solo per avere una statistica sul livello delle conoscenze possedute dagli alunni delle nostre scuole, inducono purtroppo a pensare che la scuola debba produrre essenzialmente tali conoscenze, e ad esse fanno riferimento molti docenti quando affermano la priorità scolastica delle competenze da raggiungere. Pertanto esse vanno riportate solo ad una sfera statistica e i testi scolastici non dovrebbero prevedere, come avviene, verifiche relative alle prove Invalsi. Una programmazione che educa alle prove statistiche è un assurdo logico. Inoltre, a parer mio, è deleterio e devastante il fatto che in base a queste statistiche poi si formuli l’elenco delle migliori scuole. Una scuola che opera in un’area urbana depressa culturalmente pur operando in maniera ottima non potrà mai raggiungere le prove statistiche di una scuola posta in altra area.
Ma c’è un di più che ci porta al cuore del problema: la necessità di avere in ogni scuola una équipe psico-pedagogica come i Decreti delegati avevano indicato. Sappiamo infatti tutti che il ‘900, il cosiddetto “secolo breve”, è stato il secolo delle più grandi e violenti guerre ma è stato anche il secolo delle più grandi scoperte scientifiche sull’essere umano, ovvero sulla persona dotata di una psiche di cui prima si ignorava l’esistenza, e capace di stabilire relazione con altre persone.
Pertanto, la scuola, lavorando con esseri umani, docenti e alunni, non può ignorare la dimensione psicologica di ogni essere umano, dove l’ascolto reciproco è fondamentale secondo Carl Rogers, ed entra con forza nuova e dirompente nella dimensione educativa. Inoltre sempre a livello psicologico, i risultati scientifici di Howard Gardner sulle intelligenze multiple hanno con evidenza mostrato che gli esseri umani hanno talenti e intelligenza diversi e che la strada della conoscenza è correlata a questa molteplicità dell’intelligenza umana e che pertanto i percorsi di conoscenza non possono avvenire secondo la metodologia tradizionale, che prevedeva un metodo unico per tutti.
Un docente che oggi entra in classe e siede in cattedra ed espone agli alunni la sua materia con dovizia e acutezza e poi aspetta che gli alunni nelle successive interrogazioni a cui saranno sottoposti diano risposte esaurienti in merito agli argomenti trattati, senza un minimo di conoscenza della personalità dell’alunno e delle difficoltà che sta incontrando in quella disciplina, è pari ad un ricercatore fisico che porta avanti le sue esperienze senza tener conto delle scoperte ultime. Sono venuto a conoscenza di un’esperienza pilota che si sta realizzando nel biennio di in un liceo classico italiano. Visto l’alto numero di bocciati e di abbandoni, la dirigente, dopo attento studio, ha proposto all’Ufficio Scolastico Regionale una sperimentazione che abolisce l’orario scolastico, raggruppando le materie per arie tematiche, dividendo il gruppo classe in gruppi di 6 alunni che studiano insieme al docente le varie unità didattiche.
Ebbene l’esperimento ha prodotto risultati sorprendenti in quanto le relazioni tra docente e alunno e tra gli alunni hanno stimolato l’interesse e reso lo studio e l’impegno meno gravoso. In realtà la relazione continua ha potenziato non solo l’interesse ma anche l’intelligenza e la volontà. Nessun bocciato e nessun abbandono. L’esperimento va avanti. Comprendo allora che è necessario che la scuola italiana preveda in maniera organica all’interno di ogni istituto nuove sperimentazioni, con ore di formazione dei docenti, con verifiche e confronti didattici continui, nella consapevolezza nuova che oggi solo insieme si può affrontare il lavoro nella scuola.
Occorre inoltre lavorare insieme secondo le linee costituzionali e tenendo in gran conto le scoperte ultime della psicologia dell’educazione, senza le quali la scuola rischia di essere un fantasma. Se il docente non crea il giusto rapporto con tutti i docenti del corso e con ogni allievo, il suo lavoro oggi è come disperdere acqua pura nelle fogne. Come indicava Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, occorre porre alla base di ogni rapporto educativo un’accoglienza profonda di ogni alunno, e successivamente la condivisione delle diverse esperienze che ogni alunno porta in sé, ossia il “farsi uno” con l’alunno, per giungere così alla collaborazione e ricerca comune, dove l’ascolto vicendevole diventa il tramite fondamentale della relazione tra docente e alunno.
Voglio sperare che in tutte le scuole italiane possano nascere, come in quel liceo classico di cui sopra, sperimentazioni indispensabili per avviare il rinnovamento della didattica e della pedagogia scolastica per offrire a tutti gli studenti la possibilità di seguire un percorso formativo e istruttivo idoneo alle sue capacità.