Il rabbino che crede nel dialogo

Intervista a David Rosen, direttore del dipartimento degli Affari interreligiosi del comitato ebraico americano sul valore dell'incontro tra le religioni,sulla prossima visita del papa in Israele, sui rapporti con gli ultraortodossi, mentre si cerca la riconciliazione tra i diversi popoli che vivono in Terra santa
David Rosen al convegno per ricordare Chiara Lubich

Inglese di origine, figlio del famoso rabbino Kopul Rosen, David completa i suoi studi in Inghilterra e a Gerusalemme. È stato cappellano dell’esercito israeliano nel Sinai, rabbino in Sud Africa e capo rabbino dell’Irlanda. Questa vasta esperienza internazionale lo riconduce nel 1985 a Gerusalemme, dove attualmente vive. Oggi è il direttore del dipartimento degli Affari interreligiosi del comitato ebraico americano. Conosce i Focolari da anni, ne apprezza la spiritualità, e, nonostante gli innumerevoli impegni ha voluto essere presente al convegno ““Insieme verso l’unità della famiglia umana” organizzato dal Movimento nel sesto anniversario della scomparsa di Chiara Lubich.

È la prima volta che il Movimento dei Focolari organizza un incontro multi-religioso, quali sono le sue impressioni?

«Per me non è una sorpresa perché i Focolari sono parte del gruppo interreligioso nel WCRP (Conferenza mondiale delle religioni per la pace) che è sempre multi religioso, per cui, in un certo modo, ho sempre associato i Focolari al dialogo con molte fedi diverse. Inoltre si può dire che non soltanto è bello essere tutti insieme, ma che il Focolare ha un ruolo speciale per mettere insieme diverse comunità anche a livello bilaterale. È meraviglioso lo spirito di amore, amicizia, rispetto, che esemplifica l’essenza degli incontri dei Focolari. Ci sono persone di diverse provenienze, costumi, colori, religioni e dimostra che possiamo essere un’unica famiglia».

Dal suo punto di vista qual è la situazione del dialogo interreligioso nel mondo?

«Possiamo dire che non c’è mai stato una tale comprensione, cooperazione, incontro tra le religioni, in tutta la storia umana come l’abbiamo oggi. È anche un’industria in crescita esponenziale. Non abbiamo sufficienti risorse per rispondere alla domanda. Per ogni invito che accetto sono costretto a non partecipare a sette incontri. Anche nella comunità ebraica non abbiamo risorse professionali sufficienti e, penso, succede in tutte le comunità. La voglia di dialogare e di incontrarsi è comunque una buona notizia perché significa che c’è una crescente domanda per la comprensione e la cooperazione tra le diverse fedi».

Sappiamo dai media della proposta di legge che vuole estendere anche agli ultraortodossi il servizio di leva già obbligatorio per tutti gli altri giovani israeliani. Qual è la sua opinione?

«Purtroppo sui media si vede sempre il lato negativo della vicenda e non si nota l’aspetto positivo, come succede, del resto, anche per il dialogo interreligioso che quasi mai viene seguito dai mezzi di comunicazione. È, certamente, un problema in Israele la faccenda degli ebrei ultraortodossi che investe il tipo di rapporto strutturale che esiste tra religione e Stato. Non è un approccio logico, sistematico, saggio, ma è emerso in modo organico suscitato da necessità politiche. Gli ultraortodossi non vogliono svolgere il servizio militare perché ritengono di essere una comunità esclusiva, separata, che non vuole essere influenzata dal mondo secolarizzato. Come, per esempio, gli Amish in America e altri gruppi. Pensano che portano il loro contributo alla società seguendo il loro stile di vita. Nel resto del Paese c’è un risentimento verso questa posizione. Perché devono avere benefici dalle tasse e non condividere il peso della sicurezza? È un problema interno al Paese e, secondo me, ci sono argomenti più scottanti come il non risolto conflitto con la Palestina, questo è un nodo che rischia di far sparire Israele».

Cosa si aspetta dalla vista di papa Francesco in Israele a maggio?

«Sembra che non ci siano eventi interreligiosi nel programma del papa. Questo è deludente specie per lo speciale carisma del papa che ha la capacità di fare grandi cose nel dialogo. Ma sono comunque convinto che il viaggio del papa in Israele sarà un grande successo perché fin dall’inizio del pontificato c’è una grande scia di simpatia per lui da tutto il mondo, perfino, dai media secolarizzati e anti clericali. La sua visita ha una garanzia di successo perché lo sarà per gli israeliani, palestinesi, arabi. È una cosa buona perché la cosa più importante è il messaggio di amore che il papa porterà. Ne abbiamo bisogno perché se non ci amiamo gli uni gli altri, come dovremmo, significa che non ci sentiamo amati. E, se ci sentiamo amati dal papa, questo ci può aiutare ad amarci gli uni gli altri».

Pensa che questo papa abbia una particolare conoscenza del giudaismo?

«Giovanni Paolo II aveva avuto esperienza di amicizia con ebrei durante l’adolescenza, ma non c’era, quando era adulto, una comunità ebraica in Polonia con cui interagire. Il cardinale Bergoglio, non solo ha avuto rapporti con la comunità ebraica di Buenos Aires, ma ha visitato la sinagoga molte volte, ha celebrato con loro le feste ebraiche, ha aperto la sua cattedrale alla comunità giudaica, ha scritto un libro con un rabbino, capisce la vita giudaica contemporanea. Ogni persona nel mondo sa che papa Francesco è amico della gente ebraica. Questo aiuta molto e potenzia le relazioni ebraico‒cristiane».

Qual è il suo sogno per Israele?

«Il mio sogno è il semplice sogno della pace che tutti vogliono. Per raggiungerla bisogna imparare a fare dei compromessi che si possono fare quando ci sono degli elementi di verità. Al momento manca la verità. Possiamo avere il miracolo della discesa dello Spirito Santo che benedica tutti facendoci conoscere la verità. E sarebbe bello, ma non è molto realistico. Oppure possiamo avere una terza parte, una agenzia internazionale, che potrebbe creare le risorse e le opportunità necessarie per essere in grado di metter insieme le varie parti in conflitto anche se non credono l’uno dell’altro. Ho molta speranza che Kerry il segretario di Stato degli Stati Uniti, supportato dall’Unione Europea, sia capace di mettere insieme le varie parti per imparare a vivere senza conflitti in Terra santa. E se ci sarà la pace in Terra santa ci saranno effetti positivi in tutto il mondo, ma abbiamo bisogno della benedizione di Dio».

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