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Il presepe di Wietzendorf, segno di luce e di speranza

a cura di Vittoria Terenzi

- Fonte: Città Nuova

Il sottotenente Tullio Battaglia utilizzò pezzi di filo spinato e brandelli degli abiti degli internati del campo di concentramento tedesco in cui persero la vita circa 50 mila prigionieri di guerra. Si può ora vedere il presepe esposto nella chiesa di Sant’Ambrogio a Milano

Ph Pixabay

Il tempo di Natale fa risuonare nel cuore il desiderio di pace e speranza di cui l’umanità ha urgente bisogno. Per essere costruttori di pace, è importante anche ricordare il passato per non commettere più gli stessi errori. Raccontiamo la storia del presepe di Wietzendorf, realizzato in un lager nazista, attraverso le parole di don Dario Vitali, professore di Ecclesiologia alla Pontificia Università Gregoriana e consultore del Sinodo dei vescovi.

La storia del presepe di Wietzendorf parla di una speranza che risplende anche quando tutto sembra perduto e invita ciascuno di noi a sperare contro ogni speranza. Ce ne può parlare?   

Wienzendorf era uno dei tanti lager nazisti dove furono internati i soldati italiani, i quali, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, si rifiutarono di continuare la guerra. Bollati come “badogliani”, furono subito considerati traditori. Con il re in fuga e un governo allo sbando, l’esercito si sciolse e tutti tentarono la via del ritorno alla propria casa, sapendo tuttavia di essere considerati disertori dai tedeschi che, con la caduta del regime fascista, da alleati divennero occupanti. Molti si unirono alle formazioni partigiane. Per gli altri il destino, quando non toccò loro la morte, fu il campo di concentramento: tra i 700 mila e gli 800 mila tra ufficiali e soldati, furono stipati sui treni-bestiame e spediti in Germania. Senza alcun diritto come prigionieri di guerra − per questo furono chiamati “internati” −, vennero impiegati come forza lavoro nell’industria bellica. Va detto che, fino alla fine della guerra, si scatenò una vera e propria caccia all’uomo, alla quale si dedicarono con sistematica ferocia le formazioni paramilitari della Repubblica di Salò, alimentando una guerra civile di cui ancora oggi si avvertono gli strascichi. Circa 50 mila non tornarono più, morti di stenti e di soprusi o sterminati poco prima dell’arrivo degli alleati per eliminare scomodi testimoni di una barbarie senza fondo.

La storia del presepe di Wietzendorf si riferisce al Natale del 1944. In una delle baracche del campo di concentramento, il sottotenente Tullio Battaglia, che era insegnante di disegno, realizzò un presepe commovente. La particolarità è data dalle figure che compongono il presepe, sagomate con pezzi di filo spinato e rivestite con brandelli degli abiti degli internati. In questo modo ciascuno partecipò alla composizione del presepe, mettendo del suo per rendere possibile una rappresentazione comune nelle famiglie italiane, un segno nel quale tutti si potevano riconoscere. Al di là della misura di fede di ciascuno, tutti furono uniti in un’opera che alimentava il ricordo dei propri cari, tanto più prezioso e straziante, in mancanza di qualsiasi certezza di poterli riabbracciare. La fine della guerra era ancora lontana, e comunque non c’era notizia nei lager.

Il presepe è composto di alcune figure tradizionali e di altre che non rientrano nella scena evangelica. Non c’è la grotta (mancava il materiale) e Gesù è posto in braccio a Maria, seduta su una sedia, con vicino, vigile, Giuseppe. Di fronte, al centro della scena, il bue e l’asinello. Dietro una sequenza di figure: un soldato che depone le armi, vicino alla pecora (ma non erano stati pompati, quei soldati, da frasi tracotanti come: “Meglio un giorno da leone che cento da pecora”?) e al suo pastorello, alla contadinella e ai Magi. Dall’altra parte una composizione singolare: san Francesco, un guerriero longobardo e una donna al telaio che tesse la bandiera italiana. Il presepe, inventato dal Poverello di Assisi, come segno di una identità – con solo italiana, ma cristiana – di un popolo che ha radici comuni con quelle degli oppressori.

Tra gli internati c’è anche un frate. Nella baracca ci si preparava alla Messa di Natale. Entra una sentinella che domanda: «Was ist dass? Cos’è questo?» e se ne va ridendo. Arriva l’ufficiale che guarda, ride e se ne va. Il Dio Bambino che scuote i regni di questo mondo non fa paura ai potenti, che pensano di mantenere il loro potere con la violenza, salvo poi sterminare vittime innocenti, dai bambini in su. In quella tenebra, il miracolo è che possano celebrare la Messa, segno di luce che alimenta la speranza in tanta tenebra.

Dal presepe arriva un messaggio di pace: è rappresentato, tra gli altri, un soldato che depone le sue armi ai piedi di Gesù Bambino. Anche papa Francesco nel Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2025 chiede di “disarmare il cuore” per raggiungere una pace duratura. Come si può concretizzare questo nella vita? 

Mi pare che il segno più potente sia la stella cometa, anch’essa realizzata completamente con il filo spinato. L’emblema di una prigionia ingiusta e umiliante è trasformato in segno di luce, di speranza, che oltrepassa le barriere, i muri, i recinti costruiti dagli uomini per limitare la libertà e la dignità altrui. Come disarmare il cuore? Forse la parabola più bella di questo presepe è quanto accaduto nel Natale 2023. A fine guerra Tullio Battaglia riportò in patria quel presepe, che ora sta nel tesoro di Sant’Ambrogio a Milano. Mancava il bue, che il sottotenente aveva lasciato di proposito lassù, in ricordo di quelli che non ce l’avevano fatta. La cittadinanza di Witzendorf, venuta a conoscenza della storia del presepe, ha voluto compiere un gesto di pacificazione: il sindaco con la sua giunta è venuta a Milano, recando in dono la figura del bue, fatta intagliare apposta e ricollocata nel presepe. Ritorna così con evidenza il messaggio di Isaia, che giustifica la presenza del bue e dell’asino nel presepe: «Udite, o cieli, ascolta, o terra, così parla il Signore: “Ho allevato e fatto crescere figli, ma essi si sono ribellati contro di me. Il bue conosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone, ma Israele non conosce, il mio popolo non comprende» (Is 1,2-3). Quale descrizione più aderente alla situazione di oggi? Agli oltre sessanta focolai di guerra accesi in tutto il mondo? Alla terza guerra mondiale “combattuta a pezzi”, come dice papa Francesco? Al dramma dell’Ucraina? Alla follia perpetrata sistematicamente a Gaza? Con una ideologia della terra rivendicata da ambo le parti, senza ammettere che si invoca invece uno sterminio di massa della parte avversa? Dio si è fatto carne, e questa scelta invoca il rispetto in “ogni carne” della dignità di uomo, della dignità di figlio. «Ho allevato figli», dice Isaia. I quali dovrebbero essere, per questa ragione, fratelli. Possibile che soltanto nel baratro della guerra, nell’umiliazione della dignità umana, calpestata nei suoi diritti più elementari, sia possibile recuperare pensieri degni dell’uomo?

In che modo oggi possiamo evitare di commettere gli errori del passato e aiutare i giovani a sperare in un futuro migliore, come chiede il papa nel suo Messaggio?

Si è ripetuto, retoricamente, che mai il mondo aveva conosciuto un tempo così prolungato di pace. In realtà, mentre dicevamo pace, nel cuore dell’Europa si consumavano genocidi. Quanto sta avvenendo in Ucraina, in Sud-Sudan, nella striscia di Gaza, in Siria è la dimostrazione che non abbiamo compreso: homo homini lupus. La logica della pace non è assenza di guerra; è cambiamento del cuore, conversione. È frutto di un allenamento interiore, di una disciplina dell’anima che passa per un cammino di intelligenza: intus-legere, leggere dentro le pieghe della vita, della storia la verità di chi siamo e di cosa possiamo diventare, se scegliamo il bene o il male, la pace o l’odio. San Francesco, l’inventore del presepe, poteva dire, in capo a un esercizio continuo: «Signore, fa di me uno strumento della tua pace». Quanto esercizio ci vorrà per i bambini che crescono tra le bombe, alimentati dall’odio dei grandi, a svuotare il cuore dall’odio e dal desiderio di vendetta, tendendo la mano verso chi è avvertito come nemico? E quale esercizio potranno mai fare quei bambini che, in un mondo costruito su una falsa pace, non trovano adulti che sappiano motivarli alla gratuità, al dono di sé, alla libertà che non si costruisce mai con gli egoismi, né individuali né collettivi?

Perché il presepe di Wietzendorf le sta particolarmente a cuore?

Perché mio padre è stato un internato. È una storia dolorosa, quella degli internati, sulla quale solo recentemente si prova ad alzare il velo di una colpevole dimenticanza. Come se l’Italia volesse cancellare quella che per molti fu un’onta: la vigliaccheria dei capi si era riversata su un esercito mal armato e mandato allo sbando per partecipare a una vittoria annunciata, presto trasformatasi in tragedia. Mandati nei lager, erano il segno di una follia che ha portato il Paese verso il baratro. Questi “reduci” non sapevano come interpretare un silenzio strano su quella vicenda, che oggi l’ANEI (Associazione Nazionale Ex Internati) prova a rompere in ogni modo.

Mio padre, quando, bambini, lo interrogavamo su quella vicenda, glissava sul discorso. Se c’era un film di guerra alla televisione, imponeva di spegnere. Solo quando facevamo storie sul mangiare, ricordava che a loro davano le bucce di patate.

Il 5 novembre 2023, in una cerimonia commovente, il prefetto di Brescia, a nome del presidente della Repubblica, ha consegnato ai parenti di 54 ex internati una medaglia commemorativa. Unico dei figli ancora vivo, ho ritirato con un profondo senso di onore quella medaglia.

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