Il papa, la Siria e il grido della pace

L’Angelus di ieri di papa Francesco rappresenta un passaggio decisivo nell’avvio del suo pontificato, allo stesso modo del viaggio a Lampedusa e delle parole sui migranti
Papa Francesco all'Angelus

La sofferenza del volto e il timbro della voce hanno dato una speciale drammaticità a quanto papa Francesco ha detto, ieri durante l'Angelus domenicale. Egli innanzitutto ha parlato del grido della pace: «Quest’oggi, cari fratelli e sorelle, vorrei farmi interprete del grido che sale da ogni parte della terra, da ogni popolo, dal cuore di ognuno, dall’unica grande famiglia, che è l’umanità, con angoscia crescente: è il grido della pace! È il grido che dice con forza: vogliamo un mondo di pace, vogliamo essere uomini e donne di pace, vogliamo che in questa nostra società dilaniata da divisioni e da conflitti, scoppi la pace; mai più la guerra! Mai più la guerra! La pace è un bene troppo prezioso, che deve essere promosso e tutelato».

L'appello contro la guerra nucleare Questo grido di pace era stato lanciato da Giovanni XXIII il 25 ottobre 1962 al cuore del conflitto tra Stati Uniti e Unione Sovietica, legata ai missili da installare a Cuba. Si arrivò a un attimo dalla deflagraziona nucleare. E in quel giorno papa Giovanni consegnò questo messaggio: «Con la mano sulla coscienza, ascoltino (Kennedy e Chruscev) essi il grido di angoscia, che sale da ogni parte della Terra, dai piccoli innocenti agli anziani, dai singoli individui alle comunità, sale verso il cielo: pace! pace! Rinnoviamo oggi il solenne appello, e scongiuriamo tutti i governanti di non rimanere insensibili a questo grido dell’umanità. Facciano tutto ciò che è in loro potere per salvare la pace; così eviteranno al mondo gli orrori di una guerra, di cui nessuno può prevedere le spaventose conseguenze».

Il grido di pace di papa Giovanni fu accolto e generò la Pacem in terris, in cui si dice con grande chiarezza e con netta presa di posizione che «è irrazionale pensare che nell’era atomica la guerra possa risarcire i diritti violati». Papa Giovanni non scelse la consueta via dei distinguo teologici e di una dottrina, nata in tempi ben diversi e lontani e perciò inadeguata. Egli assunse il grido, che veniva dalle vittime, dai bambini, dagli anziani e lo pose davanti ai potenti del mondo e alle loro responsabilità, perché quel grido aveva ed ha la forza, nella sua inermità e debolezza, di cambiare la storia.

Il grido di Francesco Oggi papa Francesco fa di questo grido un grande appello, nell’ora più drammatica, per fermare la guerra in Siria e il prospettato intervento di alcuni Paesi. Un appello, quello di ieri, che viene da coloro che pagheranno il prezzo più alto di questo conflittto e ne hanno meno responsabilità, e cioè in primo luogo i bambini, le donne e gli anziani.

Qui papa Francesco assume l’appello di Giovanni Paolo II del 10 marzo 2003 alla vigilia dell’inizio della guerra in Irak: «Mai più la guerra, mai più la guerra», grido aggiunto a voce nella lettura dell’Angelus, a indicare soprattutto ai giovani, che non hanno la memoria della Seconda guerra mondiale, la tragedia, che essa ha rappresentato.

Le vittime civili Papa Francesco non si sottrae al  giudizio storico sulla situazione in Siria e prende nettamente le distanze da coloro che hanno armato la guerra contro i civili in quel Paese. In questo anche l’Occidente ha le sue responsabilità, pensando di riproporre il modello Libia. Dice il papa: «Quanta sofferenza, quanta devastazione, quanto dolore ha portato e porta l’uso delle armi in quel martoriato Paese, specialmente tra la popolazione civile inerme. Pensiamo a quanti bambini non potranno vedere la luce del futuro. Con particolare fermezza condanno l’uso delle armi chimiche. Vi dico che ho ancora fisse nella mente e nel cuore le terribili immagini dei giorni scorsi».

Le armi chimiche L’uso delle armi e in particolare l’uso delle armi chimiche sta sotto il giudizio di Dio e della Storia, a cui nessuno può sfuggire, perché chi sceglie la via delle armi moltiplica il conflitto e non risolve alcun problema e aumenta a dismisura il dolore degli innocenti. Questo giudizio c’è, anche se talora viene ignorato e ad esso tutti sono sottoposti, politici, religiosi, governanti e cittadini, credenti e non credenti, persone appartenenti alle diverse religioni. Dice il papa: «Non è mai l’uso della violenza che porta la pace. Guerra chiama guerra; violenza chiama violenza».

La via che indica il papa, per uscire da questa spirale, è una nuova cultura della fraternità e dell’incontro. Bisogna «guardare all’altro come fratello e intraprendere con coraggio e decisione la via dell’incontro e del negoziato, superando la cieca contrapposizione». Non è una posizione né ingenua né nel segno della retorica del bene e dei buoni sentimenti. Al contrario è l’unico realismo possibile, mentre il realismo delle armi produce una moltiplicazione della violenza senza limiti, come la vicenda della Libia e della Siria stessa confermano nei fatti.

Le soluzioni diplomatiche Il realismo della visione di papa Francesco indica, innanzitutto, alla comunità internazionale un impegno diplomatico incessante per trovare una soluzione che ricomponga tutta l’area del Medio Oriente, in una visione e in una prassi di pace. È venuto il tempo di una iniziativa efficace e coraggiosa delle Nazioni Unite, dell’Europa, degli Stati Uniti, della Russia, della Cina e dell’Iran, per una conferenza capace di trovare soluzioni credibili, prima che tutto precipiti. E l’agenda non potrebbe non riguardare anche la Libia e la Palestina.

Aiuti umanitari Al tempo stesso il papa si preoccupa che si apra subito una iniziativa umanitaria di grande respiro che dia la luce del futuro a tutti i bambini dell’area, alle donne, agli anziani, innanzitutto dentro la Siria, ma anche nei Paesi limitrofi, dove si compie l’esodo biblico dei profughi: «Agli operatori umanitari impegnati ad alleviare le sofferenze della popolazione sia assicurata la possibilità di prestare il necessario aiuto». Iniziativa umanitaria e iniziativa diplomatica si devono sostenere reciprocamente per comporre l’alfabeto della pace.

Le responsabilità di tutti Infine papa Francesco, nella convinzione che la pace riguarda tutti e tutti possono farla, chiama alla grande preghiera e alla grande penitenza tutta la Chiesa universale, le Chiese cristiane, le persone delle grandi tradizioni religiose, le persone di buona volontà, in una grande intercessione che disarmi i cuori, gli eserciti, i politici. Non possiamo essere solamente degli spettatori di una guerra, di cui in larga misura siamo responsabili per i nostri silenzi e compromessi.

La grande penitenza, perché abbiamo giustificato le guerre e non abbiamo generato la cultura della fraternità e dell’incontro, in modo da deporre per sempre le armi. Dobbiamo cercare non la vittoria degli uni sugli altri, ma la riconciliazione degli uni con gli altri. Questo significa per i cristiani di Oriente, che vivono il tempo della prova, essere più fedeli alla verità crocifissa del Vangelo, evangelici, non più lealisti; e per i cristiani di Occidente, non dimenticare il Vangelo della pace e non omettere il dolore delle vittime dalla guerra.

La grande preghiera, perché, come dice Gesù, in Mt.17,21 «quella razza di demoni non si scaccia se non con la preghiera e con il digiuno» e i demoni sono quelli dell’odio, la vera grande malattia spirituale che oggi attraversa l’umanità e che genera l’idolo della guerra e della violenza, giustificandolo a ogni passaggio della storia.

Ecco il gesto della pace, che il papa chiede a tutti, per evitare che la guerra precipiti, le vittime vengano dimenticate e il giudizio di Dio e della Storia ci colga impreparati. Il grido del papa sia ascoltato dalla Chiesa universale, dal presidente Obama e da coloro che credono nella utilità della guerra, da noi, sempre distratti rispetto al dolore degli innocenti e delle vittime, da tutti, perché la pace è indivisibile.

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