Il fattore prevalente di cambiamento

A colloquio con Francesco Belletti, presidente del Forum della associazioni familiari
Forum famiglia Milano

Che giudizio danno, secondo lei, le famiglie sulla situazione del Paese?

«Le famiglie vivono una sensazione di distanza, di doppia velocità, di due mondi lontani. Da un lato, la quotidianità, legata alle relazioni, all’educazione e all’impegnativa ricerca di arrivare a fine mese, lo specchio cioè di una vita che ha a che fare con i grandi temi del Paese, con il bene comune, con l’economia, con la gestione della cosa pubblica. Dall’altro lato, sembra che il mondo della politica viva in un orizzonte tutto suo e stia occupando il discorso pubblico con una modalità lontana dalla vita quotidiana di tutti. La preoccupazione delle famiglie è perciò questa: una leadership politico-amministrativa che non riesce ad intercettare i bisogni veri delle famiglie. Ma non è, purtroppo, l’unica».

 

Cosa ulteriormente angustia tante famiglie?

«Nella situazione di dicotomia appena accennata c’è anche un’altra questione: la difficoltà nel difendere i valori e nel giudicare i disvalori. E questo non è un tema moralistico da relegare in qualche dibattito. La famiglia quotidianamente deve scoprire per cosa vale la pena vivere, sia per comunicarlo ai propri figli, sia perché gli adulti stessi si domandano perché tutte le mattine si alzano e faticano. Questa ricerca di senso si situa per di più in un clima culturale complessivo che valorizza la fortuna, il risultato senza fatica, il concorso a premi, o percorsi accelerati di successo. Un contesto culturale che sta generando grandissima preoccupazione e disorientamento, perché è sempre più difficile trasmettere valori di impegno, sacrifico, responsabilità. «Insomma, prima ancora delle vicende politiche, è proprio questo disastro antropologico che preoccupa e che per le famiglie è un’esperienza concreta. Ogni genitore, in definitiva, si domanda: che cosa sto insegnando a mio figlio riguardo a ciò che vale la pena vivere?».

 

Parla di disastro antropologico. La vicenda Ruby, le intercettazioni telefoniche, le serate in villa hanno portato alla luce una logica decadente. Ritiene che offrano ancora motivi per un’effettiva reazione costruttiva?

«C’è una grande responsabilità da assumere, quella della testimonianza. Da questa situazione il Paese uscirà se i costruttori continueranno a costruire. Oggi si assiste ad uno scontro tra chi costruisce in silenzio e chi demolisce in pubblico. Alle famiglie, a chi lavora, agli imprenditori, agli insegnanti e agli educatori spetta prima di tutto la consapevolezza che c’è un compito morale, un pezzo di realtà da bonificare, da migliorare. Io, la mia parte, la faccio, nonostante il clima prevalente, anche davanti all’insuccesso, ma il mio pezzo di Italia lo costruisco. Questo per me è il presupposto per andare anche a sfidare la politica, la gestione del potere e un mondo economico cha a volte vive solamente sul potere e sul successo e non sulla responsabilità e sul bene comune».

 

Ottime intenzioni, suggestivo programma. Ma come realizzarle?

«C’è bisogno di costruire dal basso e poi deve diventare voce, pressione anche sulla politica. La nostra battaglia come Forum per un fisco a misura di famiglia non ha l’obbiettivo di dare quattro soldi a ogni famiglia in difficoltà, ma quello di valorizzare un luogo, che è insostituibile, per una società dignitosa. È una logica di responsabilità diffusa. Possiamo lamentarci del governo e di ciò che non funziona, ma il lamento sarà generativo solo se insieme realizziamo luoghi di vita vissuta. L’obbiettivo pertanto è quello di sviluppare la generatività sociale, la soggettività della società civile, diventare interlocutore e richiamare chi ha la responsabilità pubblica».

 

Mi sembra che lei dubiti della capacità della politica di rigenerarsi.

«Sarà un processo lungo, ma c’è bisogno che il mondo della politica si apra a logiche diverse, a sensibilità diverse, a ulteriori competenze. Bisognerà reinserire dentro la società le persone che fanno politica, perché la politica da sola non salva il Paese e non salva nemmeno se stessa».

 

Lei presuppone tempi lunghi. Ma ce li possiamo permettere?

«Domanda rischiosa. In teoria non abbiamo tempi lunghi davanti a noi. Anzi, siamo già in ritardo. Ci troviamo davanti a tanti episodi di violenza diffusa, di indifferenza nei confronti della sofferenza dell’altro, di protervia nel linguaggio e nei comportamenti. Contemporaneamente c’è la maggioranza del popolo italiano che vive nelle relazioni, che fa volontariato, ma che è chiamata adesso ad accelerare il passo, perché non saranno gli altri il fattore prevalente di cambiamento».

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