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Il difficile percorso di pace

a cura di Redazione

Pubblichiamo una lettera che, partendo da un ricordo personale, ci porta a riflettere su come sia importante sostenere come società civile le azioni di opposizione alla guerra.

Manifestazione contro la guerra, Milano 2025. ANSA/MATTEO CORNER

Ho incontrato dopo alcuni anni un collega con il quale ho condiviso un periodo all’ambasciata italiana al quartiere generale della Nato a Bruxelles, io come consigliere militare agli armamenti e lui come amministrativo. Commentavamo il ruolo della Nato oggi e le notizie diffuse dai media sulla ipotetica ricerca di una soluzione di pace tra Russia e Ucrania, ed anche tra Israele e Hamas. Dicevamo come sono mutate le cose da allora, non solo come numero delle nazioni aderenti alla Nato. Ricordavo che durante il mio periodo ci fu un evento che oggi può risultare molto strano, cioè la “presenza della Russia nella Nato”…proprio così! Fu una circostanza autorizzata direttamente dal governo Berlusconi. Riguardava il sostegno, per un breve periodo, richiesto dalla Russia in seguito al tragico evento del naufragio del sottomarino nucleare russo K-141 Kursk della classe Oscar II, considerato tra i più avanzati della Flotta del Nord, che durante un’esercitazione navale nel Mare di Barents fu protagonista di una delle più gravi tragedie della storia militare russa. Era il 12 agosto 2000.

Partendo da questo ricordo, la discussione con il mio collega è andata avanti per capire se la ricerca di pace, dei governi di cui si parla, avesse proprio un fondamento. Abbiamo commentato anche il ruolo poco convincente che stanno avendo, in questo difficile periodo storico gli organismi internazionali di Onu, Nato, Unione Europea e altri.

Ci sono attualmente 56 conflitti nel mondo e si sta a guardare, quando un tempo sembrava impossibile che ci fossero circa 20 guerre nei 5 continenti e si diceva che le nazioni dovevano impegnarsi per imporre la pace. Oggi si parla quasi esclusivamente dei conflitti tra Russia e Ucraina, e tra Israele e Hamas.

Alcune delle guerre in atto sono state definite “necessarie”, o meglio viene ritenuto che siano iniziate per motivi legittimi: un ragionamento difficilmente condivisibile, dato che ogni guerra è sempre un fallimento per l’intera umanità. È combattuta da persone mandate a morire al fronte, e non porta mai né vinti né vincitori.

Questi conflitti, oggi come allora – e forse come sempre -, nascono più realisticamente per motivi di potere, e gli stessi governi dittatoriali li giustificano dicendo che servono per il mantenimento di una ipotetica sovranità popolare. Solitamente poi diventano conflitti di lungo periodo o permanenti. Più dura il conflitto e maggiori sono le opportunità per legittimare la repressione, consolidare il consenso, distrarre l’opinione pubblica da problemi economici o sociali.

Ma un aspetto interessa più di tutti: ogni guerra mette in circolazione grandi capitali da gestire. Le politiche imprenditoriali vanno prima di tutto a beneficio dell’industria bellica, per la fornitura di armi, e poi di altri settori economici per la forte richiesta di risorse naturali come petrolio, gas e terre rare. Poi altri capitali sono di meno chiara destinazione. Alcuni analisti hanno affermato che seguire il percorso del denaro è uno dei modi più lucidi per comprendere le dinamiche profonde dei conflitti, e forse è proprio così!

Il flusso dei grandi capitali e gli interessi economici prendono il sopravvento durante le guerre e sono gestiti direttamente dagli uomini di governo e da alcune loro élite di fiducia. Sono argomenti che accantonano qualsiasi discorso per la ricerca di pace.

È una affermazione potente, che tocca una verità scomoda e amara della storia contemporanea, non considera o passa sopra alla sofferenza della popolazione, che è quella che subisce i danni del conflitto e nel contempo fa pensare che forse ci sia un’astuzia, finalizzata al prolungamento delle guerre per il mantenimento dei benefici e del potere.

È aspetto inquietante, morale e politico dell’uso del potere, che non considera la guerra come il fallimento umano. Continua a privilegiare l’interesse privato anche davanti alla morte. Forse l’unica preoccupazione è di impedire l’ascesa di politiche di opposizione. Sono situazioni e comportamenti noti in campo internazionale come è noto che ci sono nazioni, non coinvolte nei conflitti, che sostengono privatamente con grandi capitali uno dei belligeranti per indebolire l’altro e rafforzare la propria l’influenza nella regione.

Utilizzano moderne tecniche informatiche per muovere grandi capitali in cripto-valute e aggirare qualsiasi tipo di controllo. È un modo anche questo di essere interessati al prolungamento dalla guerra per non perdere i propri benefici. Contribuiscono così, anche se indirettamente, a rendere più difficile la già complessa strada della pace. Sono gli stessi governi che consentono il transito sul proprio territorio di ogni tipo di armi per i Paesi in conflitto, che non potrebbero riceverli ufficialmente. Bypassano i controlli e aiutano questi governi anche ad esportare materiali di loro produzione, alleggerendo di conseguenza il peso delle sanzioni imposte dalle istituzioni internazionali competenti.

Non ci sono state fino ad oggi, da parte dei governi che sono contro i conflitti, azioni concrete per favorire la pace. Le sole parole non impediscono alla popolazione inerme di continuare a morire perché hanno la malaugurata sorte di vivere in zona di guerra.

A volte la strada della pace trova difficoltà anche per la diplomazia, che sembra incapace di trovare un compromesso per fermare la guerra. Non si può disconoscere che per arrivare alla pace tutti gli attori interessati devono perdere qualche cosa.

L’ostacolo più grande rimane comunque la difficoltà a fermare i grandi interessi e il fiume di capitali che favoriscono le industrie belliche che producono e forniscono armi. Sono le aziende più ricche del pianeta, sempre protese a produrre nuovi armamenti, che sperimentano nei territori in guerra, usati come “laboratori”, per poi venderli sul mercato globale.

La salvaguardia della vita umana è sempre il solo scopo da perseguire per contrastare la politica della guerra.

È sempre e solo la popolazione a pagare drammaticamente il prezzo delle guerre.

Ma sappiamo realisticamente che è molto difficile sostenere questo principio perché significa contrastare i grandi interessi in gioco, i forti arricchimenti, i traffici illeciti, le corruzioni. Oltre al rischio di rimanere isolati in questa difficile azione e perdere credibilità.

Così continuiamo a vedere le distruzioni causate dalla guerra, il dramma di persone che hanno perso tutto, e che conserveranno un trauma psicologico come un’eredità invisibile. E poi come si fa a rimanere inerti difronte alla tragica situazione dei bambini, feriti, mutilati, spesso senza genitori destinati a morire di stenti, dimenticati e abbandonati dopo avergli rubato il presente e il futuro.

Sono tutti fatti considerati fatalmente “eventi di guerra”, anche la distruzione di ospedali, scuole, case… tutti fatali “eventi di guerra”! Senza poi dimenticare i casi di torture, deportazioni, violenze sistematiche.

Sono tutte gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità, da perseguire e pretendono che la Corte Penale Internazionale alzi la voce ed eserciti una condanna reale. Tuttavia, viene detto che la giustizia internazionale manca di strumenti per agire, è lenta e spesso ostacolata da interessi geopolitici.

Forse è vero, ma è anche vero che tutti i governi hanno il dovere di agire per rendere la giustizia internazionale capace di imporre la legalità.

A questo punto però non dobbiamo lasciarci prendere dallo scoraggiamento e pensare che tutto ciò non ha soluzione.

Bisogna, per prima cosa, scacciare l’idea che poiché tutto ciò avviene lontano da noi non abbiamo la possibilità di agire.

La società civile ha un potere straordinario, spesso sottovalutato. Ma qualsiasi iniziativa richiede coraggio, organizzazione e visione collettiva.

Bisogna continuare ad opporsi alla logica della guerra come strumento di potere e arricchimento illecito, con azioni collettive capaci di smontare la falsa propaganda della “necessità della guerra per risolvere i problemi delle nazioni”.

Devono essere i social e i media a sostenere questo lavoro e quello di chi racconta la verità dalle zone di guerra e mostra le atrocità che vengono prodotte. Si devono creare petizioni, e pressioni sui governi per smascherare le aziende che fanno affari con le guerre e denunciare le speculazioni di cui veniamo a conoscenza.

Si deve aiutare chi ha vissuto in terra di conflitto a ritrovare il senso alla vita e ad abbandonare il crescente desiderio di vendetta. Restituire il diritto del futuro ai bambini che riescono ad uscire dalla terra dei conflitti.

Si devono facilitare luoghi di incontro per parlare di pace, promuovere il dialogo tra comunità divise e creare ponti culturali. È un modo semplice ed efficace per creare opinione.

È necessaria la disponibilità all’accoglienza, all’assistenza, all’ascolto delle persone in difficoltà. La solidarietà e la condivisione è una forma potente di sostegno e di testimonianza.

L’ interesse alla pace va sostenuto con il voto ai movimenti che mettono la pace e la giustizia al centro della loro azione. Ognuno di noi lo può fare.

Sostenere chi opera nella cultura, nell’arte nella musica, nel teatro, nella letteratura può aiutare a raccontare storie che smascherano la violenza e valorizzano la dignità umana.

Non dobbiamo dimenticare chi lotta per la vita e rimane vittima della repressione. Sono persone da onorare perché hanno cercato di resistere alle violenze e rimangono perenni esempi di coraggio civile.

La società civile non ha carri armati, ma ha la coscienza, la creatività che coinvolge e costruisce. Sono armi che possono cambiare il corso della storia.

Liborio Rabita

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