Il dies natalis del cardinale Piovanelli

Il 9 luglio, a 92 anni, sazio di giorni, è morto il prelato. Stasera si celebra in cattedrale, in modo solenne, il suo funerale, il suo transito verso il volto misericordioso di Dio
Piovanelli

Molte persone in cielo gli sono venute incontro: il card. Dalla Costa, Giorgio la Pira, don Facibeni, mons. Bartoletti, il card. Florit, il card. Benelli, e poi i suoi confratelli preti don Bensi, don Lorenzo Milani, don Renzo Rossi, don Chiaroni, don Aimo Petracchi, don Borghi, don Luigi Rosadoni, don Mazzi, Fioretta Mazzei, Pino Arpioni, Luciano Martini.

 

L’elenco è smisurato: fratelli e sorelle che hanno reso bella e santa la chiesa di Firenze. Ne ricordiamo alcuni, per raccontare di tutti. Ciascuno segno della grazia di Dio che visita la storia e la vita di una chiesa, quella fiorentina, che ha vissuto una lunga stagione di doni per la missione, al punto da farla essere davvero come una cittadella sul monte.

 

Nel Testamento di Piovanelli, scritto nelle ultime settimane della sua vita, tutto arriva a pienezza e compimento. Innanzi tutto la sua fede nel Signore: «Sono in dirittura di arrivo e tutta la mia vita è rivolta verso il Signore, il quale ha riempito la mia esistenza. Lui solo è stato la luce dei miei giorni. Lui solo non ha mai abbandonato per un istante il mio cammino nel tempo. Il Signore ha talmente accompagnato ogni mio passo, che non mi sono mai sentito solo ed è proprio Gesù che ora mi apre le braccia. Attraverso di lui ho sentito di essere fratello di tutti gli uomini, particolarmente dei poveri, dei malati, delle persone sole e abbandonate».

 

Ecco la confessione della fede nel mistero di Gesù che ci viene incontro nelle persone ferite, in quei poveri e malati che sono la carne dei Cristo.

 

Al tempo stesso questa amicizia e vita condivisa con i poveri ha il suo fondamento in una vita povera vissuta quotidianamente. Ancora si legge: «Sono nato povero e nonostante una vita piena di contatti con tante persone, tante situazioni, e nonostante il mio percorso nella Chiesa, sono rimasto povero e quindi non ho nulla da lasciare. Ho da lasciare soltanto amore, l’amore con cui ho cercato di incontrare gli altri; ed ora che sono agli ultimi momenti della mia vita intendo fare, mettendo tutto nelle mani di Dio, il dono di me al Signore».

 

Siamo al cuore della povertà della chiesa e del cristiano, che il card. Piovanelli rappresenta in un modo forte, vigoroso e al tempo stesso assolutamente semplice. Per questo fa un confronto tra la sofferenza di Gesù abbandonato sulla croce e la cura puntuale che ha ricevuto da chi lo ha assistito fino all’ultimo momento: «Pensando a quanto il Signore ha sofferto per noi e per me, povero peccatore, devo dire che lui, abbandonato sulla croce, mi sta risparmiando tante sofferenze. Lui crocifisso e sanguinante, io curato ed assistito con tanta delicatezza ed affetto».

 

Infine ai preti della diocesi, ai religiosi, ai consacrati, ai laici esprime un immenso ringraziamento per come gli sono stati accanto nel tempo della vita e indica ancora la strada: «Vi dico: crescete nell’amore verso Gesù Cristo e verso i poveri, i malati, i piccoli, gli ultimi. E vogliatevi bene tra di voi. Non dimenticate mai quello che il Signore ha detto attraverso l’apostolo Giovanni: ”Amatevi, come io vi ho amato”».

 

Sembra il programma di papa Francesco, donato e vissuto nella sua Chiesa, avendone portato sempre le contraddizioni, le fatiche, le prove, le ferite talora laceranti. Ha cercato sempre di unire e non di dividere. Per questo il sinodo è stato il suo capolavoro, perché ha indicato il metodo dell’unità, per fare l’unita, per vivere l’unità dopo il tempo delle divisioni anche drammatiche.

 

Bellissima è la conclusione: «Ora che sono in dirittura di arrivo, però, non mi volto indietro se non per ringraziare e corro verso il Signore, per lasciarmi abbracciare totalmente da Lui». Davvero ha terminato la sua corsa conservando la fede, come dice l’apostolo.

 

Un ricordo personale: insieme alla marcia della pace il primo gennaio 2004 a Betlemme, con il patriarca di Gerusalemme, i vescovi ortodossi, i mufti. Siamo nella seconda Intifada. Un centinaio di persone, con alcuni giovani palestinesi che urlano slogan violenti e i soldati israeliani in assetto da guerra. In questo quadro la figura inerme di padre Silvano, insieme a mons. Shabbah e a mons. Cetoloni, diventa, nella sua debolezza, appello alla pace non secondo il mondo, ma come la dona Dio. In questo modo faceva suo il versetto di Poalo: «Quando sono debole, è allora che sono forte».

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