Il cielo è sceso a Molokai

Seconda puntata della vita di padre Damiano de Veuster, missionario, portatore di speranza tra i lebbrosi, canonizzato l'11 ottobre.

“La Ninde” – a un paio di chilometri da quei dieci cascinali d’argilla che componevano allora il villaggio di Tremeloo, nei pressi di Aarschot, a nord di Lovanio, in Belgio – era una frazioncina isolata fra i boschi pascoli.

Oggi, ad andarci, vi si trova ancora la vecchia casa dei Veuster, incollata alle stalle, al granaio e al magazzino; ma è una casa, oggi, parecchio abbellita e tirata a lucido come un museo, col giardinetto davanti, e le imposte bianche sulla facciata di mattoni scuri, tre finestre e una porta a pianterreno, quattro finestre di fila al primo piano, e la lapide-ricordo di lato a un gruppo marmoreo nella stanza dove nacque il nostro protagonista.

Allora era soltanto un casolare di campagna, nient’altro.

E la gente della zona, allora, era gente rude, di fatica, facce sbozzate nel legno a colpi d’accetta, poche parole, scarne, e al diavolo ogni formalità: quello che avevan dentro veniva fuori senza sfumature o circonlocuzioni, e tanto meno infingimenti. Gente che lavorava allo stremo, come se nella vita nient’altro importasse che lavorare. Ma, all’occasione giusta, quando capitava la fiera ad esempio, sapeva parimenti divertirsi alla pazza, come se al mondo in quel giorno nient’altro contasse di più. E se c’era da sbronzarsi, si sbronzava sul serio.

Brava gente, tutto sommato, a lasciarla tranquilla. Ma attenti a non farle un torto! Cacciava di tasca quella specie di coltellaccio, che in gergo è chiamato “Lierenaar”, e senza pensarci due volte si faceva giustizia da sé.

 

E mamma Anna Caterina? Contegnosa, di solito, e infaticabile a tutte l’ore, e pia, d’una religiosità rigorista. Se l’avvio del nostro racconto l’ha colta, al contrario, addirittura sbarazzina, rimettiamo subito le cose a posto. Quello fu un momento del tutto singolare, più unico che raro, di gioia esplosiva. Veramente, a conoscerla bene, sotto sotto l’Anna Caterina di temperamento era un cuore allegro, ma il suo innato buonumore era costretto a rivestir ogni giorno la scorza autoritaria della severità, con tutti quei poderi da dirigere, che il marito le lasciava sulle spalle, e tutti quei ragazzini da allevare e da far rigar diritto, che teneva in casa. Jef, già cresciutello, la vedrà una volta impugnare un ramo d’albero grosso così e menarlo di santa ragione sulla groppa d’una delle figliole, perché era stata vista in giro con qualcuno che a lei non garbava…

 

E papa Francesco? Anche la sua immagine, d’uomo bonario ed espansivo, e capace di tal commozione da partecipare, alla sua età, al gioco dei nomi, duellando scherzosamente con la moglie fra il chiasso entusiastico dei figlioli, è stata l’immagine d’un momento, un’immagine fuori quadro. Perché Francesco, di norma, era un duro, ritenuto in giro addirittura insensibile, coraggioso quanto intraprendente, sicuro di sé e orgoglioso dei suoi, e tutto preso dallo strano commercio delle sanguisughe, ch’egli andava a rilevare fino a Vienna con un trabiccolo ad hoc, da lui stesso appositamente studiato e ingegnosamente costruito. Finché un giorno non si limitò più al trasporto e allo smercio delle mignatte, si occupò anche di grano, e la sua vita fu una giostra di compravendite da un mercato all’altro, fra Lovanio e Malines, Anversa e Bruxelles.

 

E Jef? Un puledrino selvaggio, scatenato e rissoso. Salta sui carretti in corsa, che trasportano il latte, e scapicolla giù, a rischio di spezzarsi una gamba, o peggio. Fa a pugni con tutti i ragazzotti dei dintorni, e pattina veloce e leggero come un airone, incosciente al punto da affrontare le lastre di ghiaccio più sottili.

«A un tratto, alla confluenza del Dyle col Laak – racconterà egli stesso, a proposito d’una delle sue spericolate avventure sul fiume gelato, un mattino di nebbia fitta –, vedo aprirsi un baratro sotto i miei piedi. Ho appena il tempo di sterzare con uno scatto vigoroso sul fianco. Poi freno e torno sui miei passi; e allora m’accorgo, inorridito, che ho rasentato coi pattini l’estremo limite del ghiaccio sull’abisso…».

Evidentemente Jef è fornito d’un angelo custode grande come una casa. Lo stesso angelo custode che lo salva, in un’altra occasione, quando va a finire sotto una carretta, sbucata a corsa folle da una stretta curva. Il conducente tenta il tentabile per fermare il cavallo imbizzarrito. Troppo tardi. Jef, travolto, rotola per terra, con la faccia nella polvere, e una ruota gli passa diritta sopra il capo. La gente urla che è morto. Macché, neppure svenuto. Bisogna pensare, per escludere il miracolo, che lo strato di polvere sia stato così alto, sulla carreggiata, da concedere alla testa del ragazzo d’affondarvi tutta. Questi, infatti, si rialza immediatamente. Ha un semplice bernoccolo sulla nuca, dov’è passata la ruota, e qualche contusione alla schiena, dov’è stato investito dal veicolo.

Un rompicollo, insomma. E vai a capirlo! La sera, quando la mamma trova il tempo di leggere ai figlioli qualche brano di quel suo librone rilegato in legno di noce, che racconta in caratteri gotici le storie di ben novecento fra santi, martiri ed eremiti, il nostro Jef tira talvolta certi sbadigli da un orecchio all’altro, che rischiano di slogargli la mandibola; ma poi manca di casa un giorno intero, s’è trascinato dietro anche la sorella Paolina e il cuginetto Enrico Vranken, e soltanto a notte fonda, quando è già stata battuta invano tutta la campagna, li rintracciano in un bosco, che fan gli eremiti, «come quelli della Tebaide».

 

E un’altra volta ancora, quando a cinque anni babbo, mamma e nonno lo portano alla fiera di Werchter, improvvisamente scompare nella calca, e i genitori lo cercano angosciati tutto il pomeriggio, strada per strada, in ogni negozietto, financo nelle bettole, e fra i saltimbanchi, e in mezzo alle coppie che ballano in piazza, e addirittura sotto le bancarelle dei ciarlatani, nulla; finché al nonno non viene in mente di sbirciare dentro la chiesa; ed eccolo lì, quell’imprevedibile Jef, in ginocchio da ore davanti all’altare…

Vallo a capire, quel piccolo scapestrato tutto nervi e salute, che prende a sassate chiunque gli dia noia quando meno le pecore al pascolo o quando si macina ogni giorno un’ora di strada, fra andata e ritorno, da “La Ninde” a Werchter per recarsi a scuola, e poi si priva di tutta la colazione per darla a un ragazzino, che incontra coperto di stracci.

«Ma perché?», lo rimprovera la mamma.

«E come facevo – lui, di rimando – a non aver compassione di quel poverino?».

Tre minuti dopo, magari, è già al galoppo per un tratturo in mezzo ai prati, alla caccia di qualcuno con cui attaccar briga.

Ma la domenica delle palme del 1850, Jef, che ha dieci anni, è nella chiesetta di Tremeloo, in mezzo ai suoi coetanei, coi capelli strigliati e il vestito tutto nuovo. Fa la prima comunione, e il suo è un visetto d’angelo, rapito in chissà quale sfera.

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