II “nostro Toni”

Ricordo di un amico carissimo: Toni Weber, sacerdote svizzero focolarino.
Toni Weber

Noto critico e storico-letterario, scrittore, saggista, autore di drammi teatrali per la radio e giornalista, l’anno prima della morte, avvenuta nel 1995, Chiusano ha firmato, a mo’ di presentazione per la biografia “L’ansia di Toni Weber”(1), questa commossa testimonianza, di cui riportiamo alcuni stralci.

 

Nei primi anni Settanta mia moglie e io abbiamo attraversato una profonda crisi di fede. Continuavamo ad accostarci ai sacramenti, ad andare a messa, a pregare (con grande sforzo). Ma si aveva l’impressione di stringere nebbia, di arretrare lungo un piano inclinato a strapiombo sull’abisso.

Un giorno, in questa Frascati in cui abitiamo tuttora, sentimmo parlare della scuola sacerdotale dei focolarini, sulle pendici del colle dove splende la gemma architettonica di villa Aldobrandini. Là, ci dissero, i sacerdoti dell’Opera di Maria celebravano una messa serale ch’era diversa dalle altre. Provare per credere. (…)

Andammo a quella messa, timorosi di subire l’ennesima delusione e di tornare a casa più smarriti di prima. Invece, come entrai nel tempietto cinquecentesco dei cappuccini, come vidi quei volti sorridenti e, almeno all’apparenza, felici, come sentii quei canti in varie lingue accompagnati dalla chitarra, come accolsi le parole dell’affidante predicatore, temetti solo che quella fosse un’illusione, forse un sogno; o che, tornando la volta dopo, sarei rimasto deluso, riprecipitando nel vuoto degli ultimi mesi.

 

Così non fu. Chi celebrava la messa, chi teneva quella sera il sermone che subito ci colpì e ci commosse, era un omino soave, dal volto sorridente ma con una punta di mestizia, dalla voce pacata, che in ottimo italiano ma con un velo di pronuncia svizzera ci diceva cose di un’estrema semplicità ma che pure andavano a fondo e mettevano radice: tanto che dopo continuavo a ripensarle e le sentivi farsi, in te, non solo messaggio verbale e intellettuale, ma inclinazione di vita, voglia di imitazione, energia di rinascita. Quel sacerdote di mezza età, che come i grandi poeti otteneva effetti eccezionali senza mai alzare la voce o forzare un’immagine, era Toni Weber.

 

A quella prima messa – che poi sarebbe divenuta la nostra messa domenicale per anni (…) – ci accompagnavano i nostri due figli: Agata, che aveva allora tre anni, e Mattia, che ne aveva sei. Si annoiavano alle messe a cui li portavamo prima, tanto che spesso eravamo tentati di lasciarli a casa. Ma “la messa di Toni” o, come la soprannominò Agata “la messa degli amici”, li attirò sempre come un luogo di festa. Perché fin da quella prima sera i sacerdoti, in testa a tutti proprio Toni Weber, s’interessarono di noi, vollero sapere i nostri nomi, ci diedero subito del tu, c’invitarono a seguirli nelle loro sale interne o nel loro bel giardino. Quella barriera che Toni desiderava venisse abbattuta tra clero e fedeli, nel caso nostro non era nemmeno esistita. Andati a quella prima messa; appena la cerimonia fu conclusa facevamo già parte della famiglia focolarina, che ci tuffò nella sua peculiare spiritualità. (…)

 

Intellettuale incallito e con tendenza al pessimismo, a tutta prima diffidavo di due cose, che mi pareva di notare in quell’ambiente: una cura alquanto secondaria della cultura rispetto al primato totale della pietà, dello spirito di preghiera, della carità fraterna; e un ottimismo dell’“eterno sorriso” che mi faceva pensare a un candore troppo infantile. Ma dovetti ricredermi. Col tempo l’Opera di Maria si faceva le ossa anche in campo culturale, teologico, filosofico, storico, e bastava vedere la maturazione della sua casa editrice e delle sue riviste. Quanto alla santa ingenuità, scoprii ch’era una bellissima facciata, il modo di comunicare con gli altri senza caricarli delle nostre angosce. In realtà, i figli del focolare s’ispiravano a quel centro tragico che è la sofferenza di Gesù nel Getsemani e sul Golgota, che di ingenuo non aveva proprio nulla. Se mai ci fu una theologia crucis, è proprio quella che informa di sé tutta la dottrina e la prassi di Chiara e dei suoi. La differenza è che tale teologia della sofferenza divina non si presenta col volto devastato di un mascherone gotico ma con la fisionomia ridente di un amico che ha da comunicarci una meravigliosa notizia. (…) Così il rapporto tra i due sessi. Dove li avevo mai incontrati così sereni e fraterni, limpidi e per nulla bigotti, se non in questo – per me – nuovo mondo, dove i due estremi del pavido tabù e della confidenzialità sguaiata erano ugualmente assenti?

 

Mia moglie leggeva anche gli scritti di Chiara Lubich, e perciò ne seppe presto più di me. Io invece mi lasciai convincere e conquistare, passo passo, dalla figura viva di Toni: che presto diventò un amico di casa e al quale mi affidai (io di nove anni più anziano) come un ragazzino in difficoltà si affida a un maestro forte e sereno in cui abbia piena fiducia. Quanto gli devo, anche sul piano strettamente umano! Toni fu il padrino di cresima di mio figlio Mattia, affidò Agata a un ottimo sacerdote maltese per la sua prima confessione, ascoltò con pazienza infinita i miei sfoghi, spesso amari, sulle più diverse tematiche religiose ed ecclesiali. Mai che, nelle sue risposte, prendesse il tono di un giudice o di un precettore. Sacerdote illuminato e moderno, come lo caratterizza Igino Giordani, mi diceva la sua opinione con moltissimo garbo. E solo ascoltandolo con attenzione ti accorgevi che quella non era un’opinione personale, ma il fascio di luce che Dio gettava nell’ombra dei tuoi dubbi e delle tue angosce. Non mi è mai accaduto di sentir Toni minimizzare i miei rovelli, che io stesso poco dopo sentivo di un’irritante fatuità. Toni sapeva che, in quel momento, certe cose mi facevano soffrire e perciò, per lui, erano importanti e le trattava col più delicato rispetto. Quando sragionavo o mi facevo prendere dalla collera, attendevo invano – magari sperandolo – un suo scatto di reazione che mi riportasse al buon senso. La risposta di Toni era sempre dolce, pesata, pur senza deflettere di un solo grado dalla via diritta. Quelle sue correzioni (che non sembravano tali) mi rendevano migliore. (…)

 

Molte volte abbiamo cenato, tutti e quattro, nel refettorio della scuola sacerdotale, magari portandoci qualche amico. Noi ne uscivamo sempre edificati e contenti, ma lo stesso avveniva anche in persone dalla fede vacillante o senza alcuna fede. (…) Altre volte Toni, o solo o con qualche amico della scuola (un coreano o un cecoslovacco, un vietnamita o un piemontese, un colombiano o un pakistano) veniva a cena a casa nostra. Sono tra i più bei ricordi della nostra vita. (…)

Che gioia, per me, sentirmi capito e apprezzato anche come scrittore, e in libri dove la mia tematica è dura da digerire. Non dimenticherò mai il sorriso e le parole appena sussurrate con cui Toni mi confidò quanto gli era piaciuto, e per quali motivi, il mio romanzo L’ordalia, che in alcuni ambienti aveva suscitato perplessità. Ricordo una volta che, a metà della mia Vita di Goethe, mi arenai e temetti di non riuscire più ad andare avanti. Mi si era inaridita la vena? Dovevo rinunciare al progetto e restituire l’anticipo all’editore? Piantai tutto e, gettatomi in macchina, salii ai cappuccini e chiesi di Toni. Lui mi lesse dentro. Mi disse: «Non forzare. Tra poche ore io parto per Perugia, in macchina. Vuoi venire con me? Un po’ di riposo, qualche immagine nuova, e tornerai rigenerato». Gli detti ascolto. Quel viaggio a Perugia è uno dei punti luminosi della mia vita. Toni aveva ragione. Tornai a Frascati con le batterie ricaricate e da quel giorno continuai a scrivere fino al termine del libro.

 

Insomma, devo, dobbiamo a Toni se siamo rinati come cristiani, e scoprendo un nuovo modo di esserlo. (…) Quando venne la notizia che Toni sarebbe andato nelle Filippine, provammo un’amarezza tinta di ribellione. Perché, perché perdere quello che era diventato il nostro padre spirituale, l’amico e il consolatore per eccellenza? Ma ci bastò parlare un poco con lui per condividere la sua gioiosa accettazione. A noi aveva già fatto abbastanza del bene. Come i brasiliani si erano rassegnati a perderlo e così gli svizzeri dopo i due anni del suo ministero a Zug, così toccava ora a noi pronunciare il Fiat e lasciarlo andare dove gli veniva affidata una missione d’importanza storica. Dall’Asia ricevemmo alcune lettere ch’erano messaggi di luce. Poi lo vedemmo ancora qualche volta, qui tra noi, quando tornava in Europa. E intorno alla nostra mensa lo sentimmo raccontare di quei lontani Paesi, di quell’apostolato tutto nuovo, delle varie difficoltà da superare o già in parte superate.

 

Finché arrivò tra noi coi segni di una malattia tremenda, ma con l’animo sereno di sempre, anzi con un’energia che mi diede la sensazione di quanto lo spirito possa assoggettare la debolezza anche più grave della carne. La volta dopo era ridotto peggio, e dava segni di stanchezza: ma come sorvolata da un sorriso quasi angelico. Parlava del suo male, delle operazioni subìte o da subire con una serenità che sconcertava.

Poi ci fu l’ultima volta, quando ormai non si parlava più di tornare a Tagaytay e nemmeno di guarire. E Toni, come è accaduto a tanti servi di Dio, era sceso nella «notte oscura» e non pareva più lui. Balbettava lacerti di frasi sante e consolatrici, ma con l’espressione di chi non ne ricavava più alcuna dolcezza. Davvero ci pensava al «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». Vederlo così fu atroce per chiunque gli avesse voluto bene.

Poi seppi che, verso la fine, il Padre lo aveva consolato, dandogli un “ritorno a casa” pieno di beatitudine. (…)

 

 

1) Enrique Cambòn e Silvano Cola, L’ansia di Toni Weber,Città Nuova 1994.

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