Sfoglia la rivista

Italia > Scenari

I vescovi italiani e la guerra, intervista a don Bruno Bignami

a cura di Carlo Cefaloni

Carlo Cefaloni

Dialogo di approfondimento con il direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei a proposito di alcuni punti della dettagliata Nota pastorale della Cei su Educare a una pace disarmata e disarmante

Parata militare a Roma ANSA/ANGELO CARCONI

Viviamo una congiuntura straordinaria in cui in diversi Paesi europei è stata reintrodotta la leva obbligatoria. Occorre preparare le famiglie «a mandare i loro figli e le loro figlie in guerra contro la Russia», ha affermato senza troppi giri di parole il capo di Stato maggiore della Difesa britannico, Richard Knighton.

In Italia si prevede un piano straordinario di assunzioni nelle forze armate in linea con la politica di riarmo dettata dalla Commissione Ue che invita a «trasformare l’economia in assetto di guerra», per essere preparati ad uno scontro bellico in Europa non più relegato alle ipotesi remote.

È in questo scenario che occorre leggere con attenzione la recente Nota pastorale sull’educazione della pace della Cei. Un testo molto dettagliato che non resta sul piano astratto. Cerchiamo di entrare nel merito di alcuni temi con questa intervista a don Bruno Bignami, direttore dell’Ufficio nazionale per i problemi sociali e il lavoro della Cei.

Che ruolo ha un documento di carattere pastorale così dettagliato sulla pace? A chi si rivolge e in che maniera dovrebbe essere accolto nelle comunità cristiane per portare frutto? 

In un tempo in cui il comando prevalente e condiviso è: «Armatevi!», la comunità cristiana sente il bisogno di depotenziarlo in «Amatevi!». Il clima culturale che spinge alla folle corsa agli armamenti e a rafforzare l’idea del nemico, la scelta di arruolare i più giovani, hanno il sapore di un clamoroso autogol. È psicosi bellica. Tutti sappiamo infatti che le guerre sono ibride, combattute con droni e missili, minacciate con potenti dispositivi nucleari: la leva obbligatoria non risponde più alle guerre in trincea del secolo scorso. E allora, perché arruolare sempre più gente? Forse serve a giustificare una mentalità bellica, per farla diventare logica condivisa. Se tutti si preparano alla guerra, la guerra verrà!

I cristiani non ci stanno. La Nota è preziosa per dire che l’urgenza è preparare la pace. Si tratta di mettere in campo una grande attività educativa per aiutare le persone ad aver cura delle relazioni e della propria umanità. La guerra disumanizza. Paolo VI nell’ottobre 1965 all’ONU lo aveva detto senza mezzi termini: «Le armi ancora prima che produrre vittime, generano cattivi sogni, alimentano sentimenti cattivi, creano incubi, diffidenze e propositi tristi, arrestano progetti di solidarietà e di utile lavoro, falsano la psicologia del popoli». Occorre agire ora per formare coscienze, rendere consapevoli le comunità. Del resto, Leone XIV ai vescovi italiani nel giugno scorso ha chiesto di trasformare ogni comunità in «casa della pace». Alla pace ci si allena quotidianamente. Non è una scelta saltuaria, quando ci si trova al bivio tra usare un’arma o deporla. La pace si vive in famiglia, nei luoghi di lavoro, a scuola, nella politica, nei condomini, nelle città, nelle parrocchie… e poi sarà pace anche tra i popoli!

Nella Nota troviamo citazioni di molti autori tra i quali in maniera particolare la figura di don Primo Mazzolari, considerato troppo in anticipo ai suoi tempi tanto da non poter firmare il suo testo fondamentale Tu non uccidereche ora è indicato nella Nota come punto di riferimento per discernere nel nostro tempo. Da dove nasce l’interesse verso l’insegnamento di un prete di periferia spesso incompreso nella sua Chiesa? 

Trovo che un pregio della Nota sia anche quello di presentare una varietà di testimoni di pace. Una scelta quanto mai opportuna perché fa comprendere che non siamo all’anno zero. Ci sono molte persone che hanno vissuto la nonviolenza. Ci sono credenti che hanno annunciato il Vangelo attraverso la beatitudine di essere costruttori di pace. Ci sono laici che hanno mostrato un cuore disarmato. Ci sono cristiani che hanno preferito morire piuttosto che uccidere. Camminiamo portati sulle spalle di giganti a cui dobbiamo la fede e il coraggio che proviene dal messaggio di Cristo. Uno di questi è don Primo Mazzolari, prete «pacifista», autore di pagine memorabili sulla necessità del disarmo e di superare la teoria della guerra giusta. Tu non uccidere è un quadro che rappresenta il Vangelo della pace. La testimonianza di don Primo è ancora attuale per la capacità di leggere i cambiamenti della storia e di dare risposte adeguate. Il parroco di Bozzolo ha attraversato le due guerre mondiali del Novecento ed è giunto alla conversione alla pace e alla nonviolenza. Purtroppo, pagano le guerre soprattutto le popolazioni civili: bambini, donne, anziani e persone innocenti.

Nella Nota si invita a formare alla nonviolenza, citando figure come M.L. King e Gandhi che rimandano a forme di disobbedienza civile. Solitamente, tuttavia, si afferma che occorre distinguere la libera scelta nonviolenta personale dal realismo politico di chi è investito di responsabilità istituzionali. Ma nel messaggio per la giornata della pace del 2017, papa Francesco invitò a praticare una politica della nonviolenza attiva. Si tratta di una tensione utopica o esistono esempi e pratiche da seguire e sostenere? 

La nonviolenza attecchisce solo in un contesto di dialogo vissuto. Non si improvvisa. Se ci pensiamo, la violenza diventa consuetudine quando ci neghiamo alle relazioni. Il Messaggio di papa Francesco del 1° gennaio 2017 proponeva come modello Madre Teresa di Calcutta. La santa era convinta che abbiamo bisogno di imparare a stare insieme, più che di produrre armi. La forza degli ordigni, infatti, è ingannevole: è anticipata dalla costruzione del nemico e vede come unica soluzione l’eliminazione dell’altro e la sua distruzione. La nonviolenza abita invece il conflitto trasformandolo in nuova possibilità. Scriveva Francesco: «La nonviolenza attiva è un modo per mostrare che davvero l’unità è più potente e più feconda del conflitto». Le differenze portano attriti, ma se le si affronta senza violenza, è giocoforza che prenderà il sopravvento la creatività umana. Le relazioni generano capolavori. Esperienze che si fondano su questi principi le vediamo presenti nel Sermig di Torino, a Rondine Cittadella della Pace presso Arezzo, nelle recenti attività di Arena di pace. Nel quotidiano molti credenti vivono queste dimensioni in ambito sociale e le fanno diventare opzioni politiche. La nonviolenza attiva, nel momento in cui chiude lo spazio all’uso delle armi, diventa il campo aperto della fantasia umana. Fa intendere che il perdono non è una bestemmia, non è la scelta dei deboli, ma il piccone che apre sentieri di futuro.

La nostra epoca è simile, secondo molti, al periodo precedente il primo conflitto mondiale (quello definito dei «sonnambuli» diretti al mattatoio secondo lo storico Clarke) in cui sembrano riproporsi nella comunità ecclesiale le stesse lacerazioni tra interventisti nazionalisti o democratici e neutralisti assoluti o condizionati all’obbedienza all’autorità legittima.  In che modo la Nota pastorale può essere un contributo al dialogo intra ed extra ecclesiale?

Rispetto al 1914-18 siamo in un contesto molto differente. La globalizzazione ha reso il mondo un unico villaggio e le armi disponibili adesso sono infinitamente più pericolose e distruttive. Di simile c’è però un clima culturale che rischia di accettare la guerra come strumento di soluzione dei conflitti. Ecco la ragione della Nota che vuole contribuire al dialogo tra le parti. C’è bisogno di esercizi di riconciliazione all’interno della Chiesa, tra le comunità ecclesiali, tra le fedi religiose e con tutti. L’ecumenismo non è più solo esigenza per un rapporto non conflittuale con le altre Chiese cristiane, ma è uno stato di coscienza permanente che va coltivato. Quando c’è un conflitto la prima cosa a cui pensare non è come prevalere generando sospetti e angosce, ma come parlare, spiegarsi e tenere aperti canali di dialogo. Quando ciò avviene, cambia tutto.

La notizia che ha fatto più scalpore è l’avvio del processo di cambiamento della funzione dei cappellani militari reintrodotti in Italia con la circolare Cadorna del 1915. Lei che ha scritto un testo importante in materia, come ritiene che sia maturata l’assistenza spirituale dei militari? In che modo è un servizio alla pace? 

La presenza dei cappellani nella cosiddetta pastorale d’ambiente è un dono prezioso. Vale per le caserme, ma anche per gli ospedali, i porti, le stazioni, gli aeroporti. La vicinanza cristiana nei luoghi di vita è una forma di evangelizzazione da custodire. Nella Prima guerra mondiale è successo qualcosa di unico. Dopo che per anni i cappellani militari erano stati accantonati, il generale Luigi Cadorna li ha reintrodotti con una circolare del 12 aprile 1915, riassegnandoli ai vari corpi dell’esercito. La vicenda dell’unità d’Italia aveva diffuso sospetti circa la fedeltà del clero allo Stato italiano: la Grande guerra è diventata la prova del nove. E Cadorna aveva capito che i preti avrebbero rafforzato nei soldati il senso del dovere. Infatti, un criterio di reclutamento tra i preti era la solidità dei sentimenti patriottici, tanto che il barnabita Giovanni Semeria, cappellano presso il Comando supremo di Cadorna, aveva affermato: «Non potevamo, noi sacerdoti cattolici, permettere che altri, a guerra finita, ci lanciassero l’insulto di imboscati». Più chiaro di così! Perciò, durante l’«inutile strage» sono stati arruolati oltre 24.000 ecclesiastici militari, 15.000 dei quali preti. Oggi la situazione è cambiata: i cappellani non sono così numerosi e le ragioni del servizio sono evangeliche e non nazionalistiche. Tuttavia, la Nota della CEI invoca uno sforzo di testimonianza ancora più alto: si chiede se le forme di presenza della Chiesa nei contesti militari non debbano essere meno legate a un’appartenenza alla struttura militare. Se così fosse, consentirebbero maggiore libertà di testimonianza e annuncio di pace, e collocherebbero i preti esclusivamente a livello di evangelizzazione.

Nel documento si cita il progressivo allargamento della partecipazione di associazioni e movimenti alla Marcia della pace di fine anno, introdotta dal 1968 nella Chiesa per merito di Pax Christi come segno di testimonianza controcorrente. In che modo tale intuizione originale si declinerà nell’imminente marcia in programma a Catania per dare, dal centro del Mediterraneo, un messaggio al nostro Paese e al mondo in uno scenario segnato dalla inevitabilità della guerra? 

Ogni anno la Marcia della pace è un appuntamento sentito. L’iniziativa, che inizialmente era di Pax Christi, ha poi ricevuto il sostegno della CEI con la partecipazione della Commissione episcopale per i problemi sociali e il lavoro e Caritas italiana, ma ha anche conosciuto il successivo supporto di Azione Cattolica, Agesci, Movimento Focolari, Acli e Libera. Quest’anno saremo a Catania, in Sicilia, nel cuore del Mediterraneo. Ci guiderà nel cammino il Messaggio di Leone XIV: «La pace sia con tutti voi. Verso una pace disarmata e disarmante». C’è grande vicinanza di temi tra la Nota e il Messaggio papale, soprattutto per quanto riguarda l’educazione alla nonviolenza e al disarmo integrale. A Catania rifletteremo sulla pace come inclusione sociale, dialogo interreligioso e accoglienza dei migranti. I porti, infatti, andrebbero chiusi alle armi e aperti alle persone. Parlare di pace disarmante in Sicilia, significa raccogliere la stupenda eredità di Danilo Dolci e di don Pino Puglisi. Mentre calpestiamo la loro terra, vogliamo respirare le loro idee. La pace è un cammino.

Qui dove scaricare il testo della Nota della Cei

Riproduzione riservata ©

Sostieni l’informazione libera di Città Nuova! Come?
Scopri le nostre riviste,
i corsi di formazione agile e
i nostri progetti.
Insieme possiamo fare la differenza! Per informazioni:
rete@cittanuova.it

Esplora di più su queste parole chiave
Condividi

Ricevi le ultime notizie su WhatsApp. Scrivi al 342 6466876