I tre giovani ebrei rapiti e la preghiera disarmata del papa

Torna purtroppo attuale l’incontro tra Francesco e i leaders di Israele e Palestina. La scomparsa di Yakov, Gilad e Eyal ha già dato inizio al vortice della vendetta con l’uccisione di due bambini siriani. A noi tocca rimanere saldi nell’invocazione della pace assieme a chi subisce il dolore delle vittime
Le madri dei ragazzi rapiti

Da oltre tre settimane, la storia di Yakov, Gilad e Eyal, i tre ragazzi ebrei rapiti alla periferia di Hebron, è iscritta nel nostro cuore angosciato, che partecipa dell’angoscia di tre famiglie israeliane. È un’angoscia che si fa preghiera, di fronte alla violenza e di fronte al male che sceglie sempre di colpire l’innocente.

Un grande leader spirituale ebreo ha chiesto di pregare per loro. E molti in Israele si sono domandati perché papa Francesco non faccia altrettanto, avendo pregato con Peres, Abu Mazen e Bartolomeos per la pace in Medio Oriente.

È una domanda vera, di fronte al dolore senza limiti di tre famiglie. Nelle parole di quella straordinaria liturgia c’è la risposta mite e disarmata, come mite e disarmata deve essere la preghiera dei santi della terra.

Nel suo discorso il papa ha detto: «I nostri figli… ci chiedono di abbattere i muri di inimicizia e di percorrere la strada del dialogo e della pace perché l’amore e l’inimicizia trionfino. Molti, troppi di questi figli sono caduti vittime innocenti della guerra e della violenza, piante strappate nel pieno rigoglio». Sembra una profezia per le ore che viviamo.

La preghiera del tramonto di Pentecoste nasce dal grido degli innocenti, dalle vittime. Sono loro che convocano la preghiera e la presentano al Dio di tutti i santi.

Nasce dai ragazzi palestinesi che vivono l’umiliazione di un popolo e spesso sono vittime invisibili. Essi muoiono perché nessuno li cura e nessuno li vede e li riconosce nel loro dolore.

Al tempo stesso la preghiera nasce dai giovani israeliani che vivono la paura degli attentati, dei rapimenti, dei missili che arrivano da Gaza… Oggi da questi tre ragazzi che rappresentano il segno di contraddizione di una terra al tempo stesso santa e violenta.

Abu Mazen, che ha condannato il rapimento come atto di distruzione del popolo palestinese, ha parlato a Roma della parola della riconciliazione. Una riconciliazione che tocca i palestinesi e il dialogo tra Palestina e Israele.

Peres ha parlato di due popoli – gli israeliani e i palestinesi – che desiderano ancora ardentemente la pace, «le lacrime delle madri sui loro figli sono ancora incise nei nostri cuori». Ed egli conosce il dolore delle madri israeliane, ma si carica del dolore delle madri palestinesi.

Bartolomeo ha ricordato l’ecumenismo della pace, che fa della pace, delle vittime e dei poveri su qualunque frontiera, la misura di colui che è la pace, il principe della pace.

Dunque non una preghiera ingenua, non una preghiera a basso prezzo, non una preghiera come astuzia politica, ma una preghiera che parte dalle vittime, che non le dimentica, che le mette tutte davanti al Dio di Abramo, Isacco e Giacobbe, al Dio di Gesù Cristo, al Dio compassionevole e misericordioso.

Ma proprio le vittime chiedono, e lo chiedono soprattutto i tre ragazzi ebrei rapiti, che non sia dimenticato nessuno, che si possa guardare la nostra storia, anche la più drammatica e devastante, con gli occhi del nemico, perché solo in questo modo si esce dalla violenza e si intraprende la via della fraternità.

Mentre recitavo i vespri, mi è arrivata da Damasco la notizia che un bimbo e una bimba cristiani, di otto e dieci anni, erano stati uccisi da un razzo che li ha colpiti mentre erano sul balcone.

I giornali parlano di due giovani palestinesi uccisi in rastrellamenti a Ramallah, il partito della guerra si è rimesso in moto sul versante israeliano e su quello palestinese, con una velocità che mostra la follia e l’astuzia di chi ha paura della preghiera.

Gli eventi più tragici sono più veloci di noi e i confini della violenza si dilatano in un attimo. A noi tocca rimanere saldi nella invocazione, stare in mezzo per intercedere. In questo modo papa Francesco ci consegna il respiro profondo della storia, là dove l’amore è più forte della morte.

Il papa ha pregato e prega perché la sua preghiera nasce dal dolore di chi è nella prova e dunque, per definizione, è sempre incessante, quanto senza sosta è il dolore delle vittime che sembra moltiplicarsi nella urgenza degli avvenimenti.

Chi ha rapito ha voluto rubare la preghiera che disarma i cuori e le menti, la mano e il braccio, e che i quattro anziani a Roma hanno voluto a tutti i costi perché nella loro saggezza sapevano che nei giorni amari dell’odio solo la pace invocata da chi crede può consolare madri e figli, come consola a caro prezzo questi tre ragazzi israeliani, i loro genitori e i loro amici.

Ma proprio la preghiera dà la forza, per evitare la rappresaglia, la vendetta che in Israele e Palestina diventano il vero nome della guerra. Talora la ricerca dei ragazzi diventa l’occasione per ferire la dignità e la vita di tanti ragazzi palestinesi, che non hanno nessuna responsabilità, che sono sicuramente innocenti. Non torniamo al 2002. Fermiamoci prima che sia troppo tardi.

La preghiera dei quattro anziani è sgorgata dalla fontana della pace, e continua anche nel tempo terribile e drammatico del sequestro. Sarà in forza di questa preghiera che si eviterà l’abisso di una terza intifada, in cui tutti perderebbero non solo la vita, ma anche l’anima.

I tre ragazzi Yakov, Gilad ed Eyal, nell’angoscia e nel tormento della prigionia, pregano il Dio che libera il popolo dalla schiavitù della violenza e lo chiama al perdono e alla riconciliazione. In Lui trovano consolazione e lo sperare contro ogni speranza.

I giovani palestinesi uccisi, i piccoli siriani sorpresi dai razzi sul balcone di casa, tutti fanno parte della grande nube delle vittime innocenti che attraversano la storia e in essa sono l’unico volto di Dio, il volto della sua tenerezza e della sua misericordia.

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