Nel 1956 nasce nel borgo di Barbiana la scuola di don Milani. I care, mi interessa, mi preoccupo per, mi prendo cura di…, diventa il motto di una delle esperienze pedagogiche più interessanti del secolo scorso. Potrebbe essere anche il motto per una riflessione sulla comunità. Prendersi cura della comunità, dei suoi membri, delle relazioni è ciò che ne permette la vita. Questo implica dare a ciascuno il suo, cioè aiutare ognuno a fiorire, a esprimere al meglio i propri talenti, a essere se stesso, unico e irripetibile nella sua singolarità.
Come prendersi cura della comunità? Una delle pagine più dirompenti sulla comunità è il capitolo 18 del Vangelo di Matteo. Il testo propone tre questioni centrali per ogni comunità e dà tre (non)risposte. Ecco le domande: chi fa parte della comunità? Cosa si fa con chi sbaglia? Cosa lega i membri di una comunità? In altre parole: chi siamo? Cosa ci tiene insieme? Cosa facciamo con chi non accetta questo tipo di legame?
Vediamo la prima risposta. Le altre le troverà il lettore nei prossimi numeri della rivista. I discepoli chiedono a Gesù chi sia il più grande tra di loro. Vogliono sapere chi dovrà comandare. È una domanda legittima. Ogni volta che abbiamo a che fare con una compagine articolata di persone, vogliamo sapere chi la governa. La risposta è quasi scandalosa: i più grandi sono i più piccoli, i bambini.
Non c’è nulla di romantico in questa affermazione, anzi cozza con la logica, perché dice che gli ultimi sono i primi. Lo sono già. Essere bambini, infatti, significa dipendere da altri, doversi affidare alla relazione, al rapporto. Nell’Israele del tempo di Gesù il bambino era in uno dei gradini più bassi della scala sociale (vicino alle donne), non aveva nulla di romantico.
La provocazione gesuana significa per il lettore prendere consapevolezza di non essere in assoluto autosufficiente, di doversi affidare all’altro da sé, di dover correre sempre il rischio della differenza. Non c’è moralismo in questo. C’è una verità antropologica che rischiamo di non vedere anche se la viviamo tutti i giorni. Ogni giorno affidiamo la nostra vita all’autista dell’autobus o della metro, o al medico. Affidiamo i nostri figli alla scuola pubblica perché insegni loro ad essere adulti.
Compriamo il pane e non pensiamo che sia avvelenato. La comunità si rivela dunque come quel luogo in cui siamo esposti all’altro. Prenderne coscienza fa uscire da quel delirio di onnipotenza, da quel narcisismo egocentrico in cui talvolta corriamo il rischio di cadere pensandoci primi ministri della repubblica di noi stessi.
Ecco dunque la (non)risposta di Gesù alla domanda sull’identità dei membri di una comunità: sono coloro che si riconoscono fragili, limitati, esposti all’altro a cui si possono/devono affidare. È un dato antropologico.