Hospice è una parola antica (erano gli ostelli degli antichi cammini medioevali, luoghi di accoglienza, ristoro, a volte di ripartenza, altre volte di accudimento nell’ultimo tratto del cammino della vita). Un luogo che parla di “cura” e “spiritualità” in un legame inscindibile.
“Spiritualità e cura”, “cura e spiritualità”: perché le cure palliative (anche qui, una parola antica, quella del pallium il mantello che riscalda, avvolge, protegge) sono una disciplina medica originale, che ha nella sua definizione gli aspetti clinici e specialistici uniti a parole come “famiglia” e “spiritualità”.
L’ hospice è il tempo di una spiritualità che si fa “filo sottile”, in cui la presenza umana diventa cornice di una progressiva “solitudine” che spesso è con Dio, sempre è con un infinito che si apre.
Nell’avvicinarsi di “quell’ora” tutto si fa sacro, e non stupisce che spesso siano i cosiddetti “non-credenti” a restituirci momenti di misterioso significato. Una dimensione – quella spirituale – fatta più di silenzi che di parole, ma che si staglia chiarissimamente rispetto alle altre dimensioni del dolore globale, fisico, psicologico, sociale.
Non è raro osservare la delicatezza del tempo spirituale in chi ha donato la propria esistenza nella consacrazione: una vita che viene “spogliata” delle “forze”, spese in anni di impegno concreto (la sofferenza fisica), del “ruolo” assunto agli occhi della comunità in incarichi e responsabilità (la sofferenza sociale), dell’immagine esteriore, talora espressa in pensieri formativi “alti” sul valore e sul significato della sofferenza e della morte che ora diventano pensieri “inutili” soprattutto quando richiamati volenterosamente, ma non sempre opportunamente, da confratelli e consorelle (la sofferenza psicologica).
Eppure, proprio in situazioni in cui tutto questo “dolore” profondamente umano e personale si manifesta anche in una progressiva perdita di lucidità, quel sottilissimo confine fra “psicologico” e “spirituale” si fa più evidente.
A chi si avvicina e “guarda” a una dimensione che si apre.
A noi, che altro non possiamo fare che assistere e contemplare. E a volte, cercare di raccontarlo nelle parole di una cartella clinica: «…intenso e sofferto passaggio spirituale “declinato” dalle frasi dell’Ave Maria. Rassicurata da minime parole di “presenza esclusivamente di amore” sia umana che trascendente. A tratti (più prolungati) si rasserena e sorride annuendo. […] Stretta osservazione e accompagnamento, senza forzare le parole di preghiera che le affiorano spontaneamente. Al termine più serena anche se non completamente lucida. Favorire silenzio e tranquillità anche all’esterno della stanza (senza però escluderla da colori e luci dalla finestra e suoni della quotidianità)».