Sono stato invitato all’anteprima di un film originale, che è uscito nei cinema, in Spagna, il 7 novembre. Più che un film, direi un documentario; cioè uno stile non di fiction ma di testimonianza. Entrare in quella grande sala di oltre 500 posti e vederla quasi piena mi ha provocato una forte impressione. Non immaginavo che il regista avesse una così forte capacità di convocare tanta gente solo attraverso le reti sociali.
Borja Martínez-Echevarría, il regista di Heridos (feriti) ha presentato questo documentario, dove tre donne e un uomo raccontano le loro esperienze dopo un aborto e come sono riusciti a guarire la “ferita” che ciò ha provocato in loro. Il film esce proprio in un momento in cui nell’opinione pubblica, e per motivi piuttosto politici, il dibattito sulla sindrome post-aborto è materia comune nelle conversazioni. Ma, spiega Borja, è stata mera coincidenza. Il suo lavoro ha richiesto alcuni anni di ricerca e «tutto è nato dopo aver incontrato persone che avevano sperimentato l’aborto e che parlavano di una ferita che portavano con sé da allora. Volevo sapere se quella ferita poteva guarire». Non osa nemmeno parlare di “sindrome”, perché «ogni persona ne risente in modo diverso e non ci sono sintomi comuni», se non quello del dolore intimo. Ecco perché insiste: «Non voglio giudicare, ma piuttosto far luce su come guarire la ferita».
Sorprende poi nel film la scena finale, che dura alcuni minuti: un’invocazione che ci si aspetterebbe meglio collocata in una chiesa o in una qualsiasi cerimonia religiosa: «Il ruolo di Dio, la sua misericordia, il suo amore sono fondamentali. Quando lo scopri, la tua vita cambia».
Riguardo al fenomeno spirituale e religioso, Javier Azar, giornalista di El Mundo, ha pubblicato un recente podcast dal titolo: ¿Dios está de moda? (Dio è di moda?). Scrive Azar: «Sembra che Dio stia di nuovo facendosi strada, soprattutto tra i giovani». Per verificare tale affermazione Azar si rifà alla ricerca del sociologo Rodrigo Terrasa, il quale sostiene che negli ultimi due anni, per la prima volta dagli anni ’80, si è registrata una lieve ripresa del cattolicesimo. Tra gli under 34, la percentuale è aumentata dal 34% al 42%. E non si tratta solo di un fenomeno reazionario, come pensano molti. «C’è del vero – dice Terrasa – nel fatto che la destra sia improvvisamente più anti-establishment, e questo attrae i giovani. Ma credere che questa rinascita della religiosità sia una reazione della destra è un errore». Oggi i giovani vivono nell’incertezza, consapevoli che quasi nulla è duraturo. Avere studiato o conseguito un master non garantisce loro una vita prospera. Cercano risposte e forse un senso di comunità che la Chiesa offre».
Un’altra giornalista menzionata da Azar, Almudena Calvo Domper, attribuisce questa tendenza ai processi ricorrenti comuni in ogni società. Considerando che è proprio dei giovani ribellarsi contro l’ordine costituito, i Millennials e la Generazione Z hanno vissuto un’infanzia dove era normale «la negazione di quella dimensione umana che è la spiritualità». Questi giovani sono nati in una società in cui Dio e la fede erano «concetti obsoleti e persino pericolosi perché riferiti a un passato indesiderabile». D’altra parte, in un contesto di postmodernità, di società liquida, i giovani guardano al passato, «dove esistevano paradigmi condivisi, verità universali che garantivano stabilità, come Dio e la fede. Un bisogno di tornare a verità permanenti […] e il cattolicesimo offre una verità universale che è rimasta intatta nel corso dei secoli».