Dopo alcuni mesi di eclissi, la guerra del Donbass ha di nuovo conquistato le prime pagine dei giornali, dei telegiornali e dei siti maggiori. Le breaking news, cioè le notizie principali che si ergono sopra la massa dell’infosfera non raccontano le battaglie sul campo, di cui sappiamo poco o nulla, ma dello tsunami trumpiano che sta sconvolgendo le tradizionali alleanze della geopolitica mondiale, ridando a Putin un ruolo centrale nello scacchiere internazionale, cercando di dividere il campo russo-cinese, ricompattando l’alleanza con l’Arabia Saudita e riducendo l’Europa (ma anche i Brics, salvo la Cina) a semplice spettatore del grande Risiko mondiale.
In queste settimane, poi, sta tornando a galla un conflitto dimenticato, ma attivo da decenni, dai tempi del genocidio del Ruanda, della feroce opposizione tra tutsi e hutu nella regione dei Grandi Laghi. Torna per qualche giorno, allorché ci sono immagini di sangue da mostrare all’orbe terracqueo, e tra poco scivolerà di nuovo nel dimenticatoio, anche se i soprusi continueranno, anche se il business occidentale in Ruanda continuerà ad avere bisogno delle terre rare del Nord Khivu in questi giorni occupato dalle milizie dell’M23 sostenute dalle truppe di Kigali.
Intendiamoci bene, chi cerca notizie sulle tante guerre, scaramucce e conflitti che sono accesi nel pianeta le può trovare sul web, basta che sappia navigare e che abbia la curiosità di non fermarsi alla prima schermata dei motori di ricerca, e che non si accontenti delle prime risposte alle domande rivolte ai diversi programmi di intelligenza artificiale: mai tante notizie sono state a disposizione dei curiosi di verità.
Ma la stragrande maggioranza della popolazione mondiale fornita di connessione ha solo poco più di un’ora al giorno a disposizione per informarsi, il più delle volte ormai dagli schermi: in metropolitana, cosa volete che ci si stia a impegnare per scovare qualche notizia sul più vecchio conflitto oggi ancora acceso, quello del Sahara Occidentale, mezzo secolo di soprusi? Tra le stazioni Duomo o Centrale FS, o tra Termini e Spagna, si è solo capaci di scrollare per un centinaio di volte (se va bene) sullo schermo di qualche sito di informazione, se non addirittura di TikTok o Instagram, che non sono propriamente delle App d’informazione.
Ed ecco che entra di nuovo in gioco la proprietà dei mezzi di informazione, come da sempre è avvenuto. Se nel secolo scorso contavano i proprietari di radio, tv e giornali, ormai sono i grandi del digitale ad avere il possesso delle più diffuse fonti di informazione. L’esempio di X, proprietà di un big del digitale entrato in politica, la dice lunga sull’obiettività di tali mezzi. La tecnocrazia, cioè il possesso della tecnologia unita alla politica, rischia di farci vedere solo quegli sprazzi di guerra che interessano ai potenti di turno. Già i greci dicevano che la guerra è il regno della menzogna: quant’è più vero quest’oggi in epoca di infosfera.