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Guerre, affari e politica: a proposito della proposta di Zamagni

di Carlo Cefaloni

Carlo Cefaloni

Il decano degli economisti civili invita a porre un freno allo strapotere delle industrie delle armi. Un invito da prendere sul serio davanti alle scelte imminenti dei Paesi europei disorientati dal rapido capovolgimento della strategia statunitense nella martoriata terra ucraina

Vertice informale sull’Ucraina e la difesa europea Parigi, 17 febbraio 2025. NPK ANSA / Filippo Attili – Palazzo Chigi

Non poteva usare parole più chiare Stefano Zamagni, durante un convegno ad Assisi sul disarmo nucleare, nel denunciare la mancanza di libertà della politica a causa del potere prevaricante delle industrie delle armi.

È stato il presidente Usa Eisenhower, nel suo discorso del 1961 di saluto alla Nazione, a mettere in guardia dal prevalere del “complesso militar industriale” non solo sulla politica ma anche nella cultura e perfino nella spiritualità di un popolo.

È sempre molto chiaro ed esplicito, in questo  senso, papa Francesco nel ripudiare l’egemonia della cultura della guerra. Resta un punto di riferimento il suo discorso del settembre 2014 al sacrario militare di Redipuglia, quando, davanti alle tombe di oltre centomila giovani vite gettate nel mattatoio delle trincee della prima guerra mondiale, mise in evidenza che nulla era cambiato a 100 anni da quella strage per il predominio dei «pianificatori del terrore e delle industrie di armi» che continuano a ripetere le parole di Caino: “A me che importa?’”.

Biden con Volodymyr Zelensky a Kiev,2023. ANSA/US FORZE ARMATE UCRAINA

L’invasione russa dell’Ucraina consumatasi il 24 febbraio 2024, 10 anni dopo quel discorso di Francesco avvenuto quasi in contemporanea con gli accordi di Minsk che avrebbero dovuto impedire la guerra in Europa, ha trovato l’opinione pubblica impreparata davanti ad uno scenario bellico rimosso nella consapevolezza collettiva, nonostante decenni di corsa al riarmo. È stato difficile ragionare in maniera critica sulle cause di un conflitto preparato da tempo davanti all’urgenza del sostegno militare al Paese aggredito, offerto dai governi occidentali al seguito degli Stati Uniti d’America guidati dal presidente democratico Joe Biden.

In tre anni di una guerra, che ha causato migliaia di vittime ( il numero è incerto) e provocato sofferenze insanabili, si sono alternate analisi contrapposte sulla consistenza delle forze in campo e sugli obiettivi da raggiungere per arrivare ad un cessate il fuoco onorevole se non giusto.

ANSA/MASSIMO PERCOSSI

Nella critica alle scelte dei governi occidentali, sostenute da larghe maggioranze parlamentari, anche in Italia, si sono alternate e sovrapposte più tesi. Da chi ha invocato il ricorso  alla resistenza nonviolenta come esercizio del diritto di difesa, opzione considerata perlopiù irragionevole, a chi ha considerato lo scontro sul territorio ucraino una guerra per procura tra Usa e Putin con l’inutile sacrificio della popolazione coinvolta. Una tesi che ha incontrato reazioni sdegnate da parte di chi ha, invece, sottolineato l’eroica resistenza di Kiev affermando che l’unica pace giusta l’avrebbero decisa chi ha avuto il coraggio di combattere la sopraffazione dell’autocrate russo paragonato ad un nuovo Hitler.

Anche se era implicita la presenza sul terreno dell’intelligence angloamericana, è stato chiaro fin dal principio del conflitto che agli alleati occidentali non sarebbe stato chiesto il coinvolgimento diretto delle proprie truppe in Ucraina per non coinvolgere soldati della Nato con relative rappresaglie e scatenamento del conflitto nucleare.

Solo il presidente francese Emmanuel Macron ha, invece, sempre previsto tale eventualità estrema a seconda dell’evolversi del conflitto.

L’urgenza di far cessare il fuoco di una guerra che molti esperti definiscono impossibile da vincere militarmente, si è basata sulla necessità di non esporre ulteriormente alle sofferenze il “martoriato popolo ucraino” e la gran massa di coscritti russi prelevati dalle aree marginali di quel Paese.

Come è ormai noto, l’accordo di pace era ad un passo dall’essere firmato con la mediazione della Turchia già ad aprile 2022 ed è quanto mai importante capire, al di là di ogni polemica, chi e come ha impedito di fermare la strage.

In un rovesciamento di strategia che era difficile anche solo immaginare, il nuovo presidente Usa, Donald Trump ha imposto una narrazione del conflitto russo ucraino contraria alle ragioni di Kiev allineandosi con quella di Putin, come fece a suo tempo Berlusconi, andando direttamente a trattare con la Russia in Arabia Saudita e ora in Turchia, non riconoscendo alcun ruolo al presidente ucraino Zelenski, apertamente criticato da Trump, e anche agli alleati europei che hanno finanziato e armato l’Ucraina.

EPA/Melina Mara / POOL

Il presidente Usa ha imposto all’Ucraina di ripagare il debito contratto per le forniture militari con la cessione dello sfruttamento delle miniere di minerali e terre rare necessarie per l’industria hi tech.

Un brusco e realistico risveglio dalla teoria che vorrebbe collegare capitalismo, diritti umani e democrazia.

Come ha messo in evidenza su Avvenire l’economista Luigino Bruni, sgombrando il campo da ogni ambiguità, «il centro del sistema capitalista vive e cresce guidato da un solo unico obiettivo: la massimizzazione razionale della ricchezza sotto forma di profitti e sempre più di rendite».

Tale scenario impone l’ora della verità all’Europa che non ha giocato in questi anni il ruolo di attore di pace a livello internazionale ma che, con i vertici Ue, teorizza di “trasformare l’economia in assetto di guerra”.

Il cambio di strategia di Trump come ha detto Romano Prodi, su Il Messaggero, ha avuto una «risposta europea tragicamente inappropriata, con la convocazione a Parigi di un incontro improvvisato fra i principali Paesi europei (compresa la Gran Bretagna) che si è concluso non solo senza una comune strategia».

La nuova riunione convocata per domenica 2 marzo a Londra si annuncia problematica anche se incentrata su obiettivo teoricamente condiviso: la costituzione di una Difesa comune europea. Una questione centrale fin dal fallimento nel 1954 della Comunità europea di difesa, ma mai dibattuta apertamente in Italia anche se ha prevalso nei fatti l’orientato di alcune imprese sotto controllo pubblico a concentrarsi nel settore delle armi fino a far diventare il nostro Paese il sesto nella classifica mondiale dell’export militare.

A concepire questa linea di politica industriale concorrono non solo le grandi società di consulenza, ma anche il restante capitale in mano ad investitori privati che puntano nel settore militare per i profitti che se ne possono ricavare nel breve termine. Per questo motivo Zamagni riprende la proposta avanzata da Raul Caruso, cfr il libro “Di tasca nostra”edito da Città Nuova, di impedire alle aziende di armi di essere quotate in Borsa ( delisting) e di «introdurre dei sistemi di tassazione dei sovraprofitti» perché «non si possono fare profitti sulla morte degli altri».

Al vertice informale di Londra si discuterà, invece, della costituzione di un “banca del riarmo” come leva per unire nuovamente il Regno Unito con l’Unione europea come spiega molto bene l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott. Una banca alimentata dal debito comune contratto svincolandosi dal patto di stabilità reintrodotto in Ue limitando le spese del welfare e della sanità.

Sul peso dei grandi capitali privati nell’industria delle armi è significativa l’analisi contenuta nel dossier “Più armi più lavoro? una falsa tesi” curato da Gianni Alioti e Maurizio Simoncelli, per il Laboratorio permanente di riconversione industriale, da cui si evince che nella società Leonardo «un ruolo sempre più decisivo nella sua gestione lo giocano i Fondi istituzionali, che per il 53% sono nord-americani. Tra gli investitori istituzionali più importanti di Leonardo figurano diversi colossi americani della finanza: Dimensional Fund Advisors LP, The Vanguard Group, Norges Bank Investment, T. Rowe Price International Ltd Management, Goldman Sachs Asset Management, BlackRock Fund Advisors e DNCA Finance SA».

L’intervento di Zamagni non può restare confinato nell’ambito delle enunciazioni teoriche. Il decano degli economisti civili non ha avuto timore di esporsi in questi anni proponendo, assieme ad altri, una proposta di cessate il fuoco in Ucraina, prestando il fianco a dure critiche e polemiche.

Occorre, perciò, suscitare un vero confronto sulla politica economica e industriale italiana a partire da alcuni fatti che non possono restare inosservati.

Giorgia Meloni n Arabia Saudita ANSA/US PALAZZO CHIGI ATTILI

Il 26 gennaio, ad esempio, il governo italiano ha concluso un accordo di partenariato industriale con l’Arabia Saudita nel campo della Difesa e dell’Energia.

Nonostante gli ingenti profitti, la divisione aerostrutture di Leonardo attraversa una seria crisi nello stabilimento di Grottaglie a Taranto che potrebbe essere acquisito da una società saudita.

Global Combat Air Programme (GCAP) fighter EPA/NEIL HALL

I sovrani della famiglia di Bin Salman sono interessati a far parte del progetto del caccia bombardiere di sesta generazione Tempest che vede assieme Italia, Regno Unito e Giappone. Secondo quale logica di difesa europea è difficile da capire, considerando gli altri progetti dei nostri alleati per prodotti destinati a concorrere nel mercato internazionale dei sistemi d’arma. Soprattutto è arduo capire quali valori comuni si possano condividere con un regime che viola i diritti umani e verso il quale il nostro Paese è riuscito dal 2019 al 2023 a fermare l’invio di missili e bombe perché coinvolto nella guerra in Yemen. Divieto rimosso per spianare la strada a questo nuovo scenario.

Se non si agisce per la pace occorre dare ragione al realismo amaro del poeta romano Trilussa sul   «Quer covo d’assassini che c’insanguina la tera

sa benone che la guera è un gran giro de quatrini

che prepara le risorse pe li ladri de le borse».

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