Era il 1983 quando il grande economista Federico Caffè invitava a non illudersi di trovare il benessere economico dalla produzione e vendita delle armi ma di investire, invece, nell’istruzione pubblica, nelle bonifiche ambientali e contro il dissesto geologico.
Lo stato di abbandono di una parte importante del nostro Paese, descritto su questo numero di Città Nuova, dimostra nel 2025 la mancanza di decenni di politiche di difesa del territorio, assieme alla carenza di risorse per riparare i danni ambientali di uno sviluppo industriale senza regole (vedi il caso Pfas).
Poco è stato investito dei soldi europei destinati alle zone a difficile transizione ecologica (individuate per l’Italia nel Sulcis in Sardegna e nell’ex Ilva di Taranto), mentre, finita l’emergenza Covid, l’Unione europea ha ripristinato le regole del patto di stabilità che pongono forti limiti alla spesa pubblica.
È in questo contesto che si pone l’obiettivo assunto dai Paesi della Nato di destinare il 2% del Pil alle spese militari sotto la forte pressione degli Usa. «Patti chiari, amicizia lunga» ha detto in italiano l’allora presidente Obama visitando Roma nel 2016, ma ora Trump parla addirittura del 5% del Pil come spinta a seguire l’esempio “virtuoso” della Polonia (vicina al 4%).
Si pone, dicono alcuni, un serio problema di “affidabilità e lealtà” atlantica per l’Italia che si pone sotto il 2% del Pil, anche se può far valere la disponibilità sul terreno delle basi Nato e Usa oltre agli stretti legami industriali con Washington (esempio eclatante l’adesione al programma dei caccia bombardieri F35 della statunitense Lockheed Martin).
A partire dagli anni ‘90 del secolo scorso, i governi italiani hanno seguito costantemente un indirizzo di politica industriale incentrata sulle società sotto controllo pubblico, Leonardo su tutte, che permette al nostro Paese di collocarsi, in ascesa, tra i primi 10 esportatori di sistemi d’arma al mondo. Un mercato in forte crescita che vede le industrie europee in competizione tra loro verso i maggiori acquirenti. Tra questi troviamo costantemente Arabia Saudita, Egitto, India, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. La visita di gennaio del governo Meloni a Riad ha avuto questo obiettivo.
La concorrenza tra le industrie europee della difesa ha comportato la mancanza di coordinamento tra le stesse. Il rapporto Draghi sulla competitività dell’Unione europea ha evidenziato, ad esempio, l’esistenza di 12 tipi europei di carri armati da battaglia contro un unico modello Usa. Una frammentazione che favorisce il predominio dell’industria a stelle e strisce (Buy american!).
La frammentazione di questo settore industriale, dovuta alla concorrenza tra le imprese nazionali, conduce ad un evidente paradosso. I vertici della Ue premono per «trasformare l’economia europea in assetto di guerra» pur in presenza di una spesa militare dell’Unione (esclusa quindi la Gran Bretagna) che è di poco inferiore a quella cinese e di oltre tre volte quella russa.
L’orientamento prevalente della Commissione europea, guidata nuovamente da Ursula von der Leyen, è quello di creare un fondo di 500 miliardi di euro per sostenere progetti comuni di difesa e approvvigionamento di armi oltre a variare lo statuto della Banca europea degli investimenti per superare il divieto di finanziare le imprese private del settore.
Sarà questo il tema centrale del Consiglio d’Europa che si svolgerà nello stesso mese di giugno 2025 in cui è previsto il summit della Nato dell’Aja, cioè nel Paese dell’ex premier olandese Mark Rutte e nuovo segretario generale dell’Alleanza atlantica che invita ad assumere «una mentalità di guerra».
Siamo di fronte a scelte strategiche che richiedono, in democrazia, un largo e approfondito dibattito, in considerazione, tra l’altro, della mancanza di una Difesa comune europea oltre che di una politica estera condivisa.
Spesso si supera ogni obiezione affermando che la spesa militare avrebbe effetti positivi per l’economia. Al contrario, come ha fatto notare il governatore della Banca D’Italia, Fabio Panetta, «la produzione di equipaggiamenti bellici non contribuisce ad aumentare il potenziale di crescita di un Paese. Lo sviluppo deriva dagli investimenti produttivi, non dalle armi. Non a caso, negli anni Trenta, John Maynard Keynes proponeva di incrementare massicciamente la spesa pubblica per investimenti come soluzione alla depressione economica negli Stati Uniti, suggerendo al presidente Roosevelt di concentrarsi su “l’ammodernamento delle ferrovie”».
Continuare a sostenere, con l’incubo della paura, l’incremento degli investimenti bellici, pur in presenza di già elevati livelli di spesa, finisce per favorire solo i profitti delle industrie di armi.
È questa la premessa del “Laboratorio permanente per una politica industriale di pace” promosso da diverse realtà della società civile italiana con l’obiettivo concreto di indirizzare le risorse pubbliche verso la conversione ecologica integrale. Un segnale importante arriva dall’Università di Pisa che ha introdotto nel proprio statuto il divieto di «attività per lo sviluppo delle armi» in contrasto con l’attivismo in campo accademico da parte della società Leonardo.
Segnali che vanno in direzione opposta alla logica ferrea del riarmo. Così come lo è la nascita (su iniziativa di Marco Tarquinio, Cristina Guarda e altri deputati), del gruppo informale per la pace all’interno Parlamento europeo. Riuscirà ad aprirsi un vero dibattito sul tema? Molto dipende da coloro che decideranno di uscire dall’inerzia.