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Guardando la vita di Anna Maria Ortese

di Pasquale Lubrano Lavadera

- Fonte: Città Nuova

Un ricordo della grande scrittrice, segnata da un dolore esistenziale che si traduceva in arte pura, in voli nella bellezza tra i più arditi del patrimonio letterario italiano

Anna Maria Ortese
Anna Maria Ortese. Fonte: Pubblico dominio, https://it.wikipedia.org/w/index.php?curid=4274361

Era la primavera del 1989 quando mi recai a casa di Mario Pomilio a Napoli in via Aniello Falcone, con i miei soliti grandi limoni di Procida che lui amava molto. Avevo da poco pubblicato su Città Nuova la recensione al libro della Ortese In sonno e in veglia e come facevo solitamente la portai a Pomilio per avere il suo giudizio critico. Dopo averlo letto, volle comunicarmi le sue riflessioni e in chiusura gli venne spontaneo dirmi, quasi sussurrando: «Una scrittrice importante e segnata fortemente dal dolore».

Sapendolo amico di Michele Prisco, Domenico Rea e Luigi Compagnone fin dal 1954, allorquando lui si era traferito a Napoli, cercai di indagare un po’ sul rapporto tra Anna Maria Ortese e quegli scrittori di cui lei aveva parlato nel racconto Il silenzio della ragione, presente nel libro Il mare non bagna Napoli, evidenziando limiti e perplessità.

Pomilio mi raccontò brevemente quanto era accaduto e della forte reazione degli amici nei confronti della Ortese, per ritornare infine sulla realtà del dolore esistenziale, cifra assoluta della vita e della narrativa della scrittrice fin da quel suo primo libro, Angelici dolori che la rivelò al mondo letterario italiano nel 1937, grazie al direttore de La Fiera Letteraria Massimo Bontempelli, che aveva già pubblicato sulla rivista alcune sue poesie.

Fui grato a Pomilio per le sue osservazioni che acuirono il mio interesse per la scrittrice e mi spinsero ad entrare, seppure in punta di piedi, in quella “stanza di dolore” generatrice dell’ispirazione artistica di una delle più grandi scrittrici italiane del ‘900.

A ripercorrere la vita della Ortese così come egregiamente hanno fatto Giancarlo Borri, Luca Clerici, Monica Farnetti ed altri critici, si resta sgomenti ed anche ammirati di come, pur nella sofferenza estrema e spesso limitante, la Ortese fosse sopravvissuta grazie alla scrittura.

A tal punto che, pur quando le circostanze e le limitazioni le impedivano di rapportarsi in maniera diretta con le persone che la circondavano – è risaputa la sua idiosincrasia a concedere interviste – lei non interrompeva quel flusso di amore che nutriva per tutte le creature e in special modo per le più fragili e deboli, senza escludere gli animali, per le quali scriveva, e di come lei aspirava a quell’infatilidad che la massificazione sociale e una politica poco attenta ai bisogni degli ultimi trascurava, se non disprezzava.

Basta leggere oggi Corpo Celeste un libro che ritengo fondamentale per chi voglia conoscere il pensiero della Ortese e avventurarsi poi nella sua produzione letteraria; un manifesto, un invito pressante, una speranza indomita che lei ci consegna, affinché il vivere per tutti possa diventare “spazio di civiltà e di amore”.

Nel mio rapporto con lei, epistolare e telefonico, dopo un iniziale mio riserbo, ho potuto parlargli di me, della mia vita, del mio sofferto ‘68 all’università, e lei di rimando sapientemente e con generosità ha osato palesarmi il suo dolore per una vita sempre troppo errabonda, dolore per una produzione artistica spesso incompresa, dolore per una solitudine forzata a Rapallo, ultima sua dimora dopo Roma, Tripoli, Napoli, Venezia, Milano. Una scelta voluta per essere accanto alla sorella amata Maria bisognevole di cure e affetto.

Stillato dalla sofferenza, quel dolore si traduceva in arte pura, in voli nella bellezza tra i più arditi del patrimonio letterario italiano, in sguardi luminosi proiettati al di là del tempo e dello spazio, che rendono oggi il nome della Ortese, oserei dire, sacro.

Percepivo che le visioni reali e irreali delle sue opere nascevano proprio da questo connubio di dolore e speranza nello sguardo lanciato in un altrove dove ci sarebbe stata una pace duratura e senza più la sofferenza del vivere. Sarà questo il messaggio consegnatoci da lei sia da Il porto di Toledo, sia dall’ultimo suo romanzo Alonso e i visionari.

Leggendo la sua vita si può senz’altro affermare che la sua arte è nata, è cresciuta, poi maturata si è irrobustita ed ha raggiunto vette inesplorate grazie proprio alla sua acuta sensibilità che le hanno permesso di cogliere sfumature inusitate, ripetendosi per lei quel miracolo letterario intravisto nell’opera di Katherine Mansfieeld fin dalla gioventù.

Se le difficoltà economiche, la perdita di due fratelli marinai, uno all’isola di Martinica sulla nave dove lavorava e l’altro nella guerra in Albania nel 1940, la dimora instabile, gli amori infranti, gli insuccessi letterari, procuravano nel suo animo ferite sanguinanti, l’arte letteraria  fioriva in pagine straordinarie, generate da una linfa ardente e sconosciuta, nuova e struggente, capace di trasportare il lettore, che osava varcare la soglia di quell’universo misterioso della sua prosa, in una sorta di vera felicità esistenziale.

Esperienza di cui avevo già percepito i prodromi nella lettura delle poesie del poeta Umberto Saba. Per cui provai intima gioia nel sapere del suo grande amore per la poesia del poeta triestino. E fu allora che le inviai un mio piccolo saggio su di lui, pubblicato sulla rivista Nuova Umanità, convinto di farle dono gradito.

Dopo la sua morte parlai a lungo di lei all’amico Romolo Runcini, tra i più importanti esperti della letteratura fantastica, di cui avevo seguito un corso di aggiornamento presso L’Istituto Universitario L’Orientale a Napoli. Lo incontrai nella sua casa a Procida dove aveva scelto di vivere e dove sognava di istituire una Fondazione sul Fantastico.

Ebbene, nell’ascoltare la mia esperienza con la Ortese, fu felice perché riteneva la scrittrice tra i più importanti autori italiani che s’erano avventurati con Landolfi e Buzzati in quel genere letterario.

Chiudo questo breve approccio alla vita della scrittrice, rievocando le parole che lei mi disse nell’ultima telefonata. Con la sua voce sottile e ferma, in un accento accorato e lieve, in un crescendo di partecipazione d’anima, mi chiedeva: «Mi dica caro Lubrano, come sta sua moglie e i bambini. Come è la sua vita a Procida. Sempre quella luce pura sull’isola?» Poi alla mia richiesta di una possibile intervista lei mi rispose: «Sia paziente con me, caro Lubrano… verranno tempi migliori e chissà che non potremmo incontrarci».

In realtà l’avevo già incontrata e l’intervista era stata già generosamente offerta.

 

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