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Gli ostacoli alla conversione ecologica nell’attuazione del Pnrr

a cura di Carlo Cefaloni

- Fonte: Città Nuova

Carlo Cefaloni

La logica emergenziale della guerra porta a non realizzare gli obiettivi di transizione ecologica contenuti nel Piano nazionale di ripresa e resilienza. Un contributo di approfondimento promosso dai saveriani. Intervista a padre Mario Menin, direttore di Missione Oggi

 

Conversione ecologica e produzione bellica (AP Photo/Evan Vucci)

Come incide la guerra sul Pnrr? È questa la giusta domanda di un percorso di riflessione proposto dalla rivista Missione Oggi, espressione dei missionari saveriani. La congregazione fondata nel 1895 rappresenta, oggi, una delle realtà ecclesiali più vivaci in dialogo costante con il mondo dell’impegno sociale e quindi ambientalista.

In un incontro pubblico svoltosi a Brescia nel mese di giugno sono intervenuti Mario Agostinelli e Guido Viale, due studiosi e attivisti da sempre attenti alla conversione ecologica. Dal convegno sono emersi alcuni elementi utili per un confronto da continuare e allargare come messo in evidenza dall’intervento di don Bruno Bignami, direttore dell’ufficio nazionale della pastorale sociale e del lavoro della Cei.

Ne abbiamo parlato con padre Mario Menin, direttore di Missione Oggi.

Il piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) rappresenta l’occasione unica e irripetibile per rispondere alle calamità che pensavamo ormai fuori dalla società occidentale come le pandemie e le guerre. Cosa è emerso ora dal vostro incontro?
Abbiamo promosso il nostro convegno annuale per approfondire ed allargare la riflessione iniziata alla fine del 2020, dopo la prima ondata di Covid-19, quando ci eravamo impegnati, come redazione, a “ripensare il mondo dopo la pandemia”, ripartendo da tematiche come quelle dell’ecologia e della solidarietà. A un anno di distanza, mentre nel cuore dell’Europa infuria la guerra, ci siamo chiesti, paradossalmente, se la pandemia, ma anche la guerra, non siano delle tragedie “utili” per progettare un mondo diverso, diversamente governato, come recita il sottotitolo del convegno: “Prove di un mondo diverso?”.

Da che domande siete partiti?
Ai relatori abbiamo chiesto di aiutarci a riflettere sulla crisi in corso, tenendo conto anche del Pnrr, il cui obiettivo è (dovrebbe essere) quello di guarire o quantomeno lenire le patologie del nostro Paese (e del pianeta), così drammaticamente evidenziate dalla pandemia e dalla guerra, a livello sociale, ma anche economico e ambientale.

Cosa è emerso da questa analisi?
Nella prima parte del convegno, Mario Agostinelli e Guido Viale, hanno mostrato, dati alla mano, che purtroppo ormai le emergenze sembrano farla da padrone a livello di governance del mondo, sicché non è più possibile una gestione ordinaria del sistema vigente. «Le emergenze sembrano essere diventate sistema di governo, un vero e proprio modo di produzione», ha detto Agostinelli. Circa la guerra in corso in Europa, con il trascorrere dei giorni, appare sempre più chiaro che anch’essa è distruttiva come tutte le altre guerre. Semina odio e violenza, distrugge intere famiglie, mortifica l’umanità, la cultura e la natura, secondo un’escalation fino a quattro mesi fa impensata e poi invece del tutto prevedibile, «man mano che diventava palese la sua natura di scontro tra superpotenze”, come ha dichiarato Agostinelli.

Come se ne esce dalla guerra?
Secondo noi dalla guerra non si esce investendo sulla guerra, bensì sulla pace, come sottolinea appunto l’appello comune lanciato in pieno lockdown per fermare le fabbriche di armi e tenere aperte quelle civili. Dal nostro convegno sono emerse alcune proposte, che vanno nella direzione di questo appello: continuare a manifestare per la pace, insegnare ed educare alla pace, affermare parole e simboli radicalmente altri da quelli che stanno prendendo corpo nelle menti di chi, per retoriche che guardano al passato, rischia di non vedere la semina di violenza, ma nemmeno la concretezza di uno scenario che può mettere fine alla vita civile e democratica in Europa. Anziché chiederci “chi può vincere” la guerra, dobbiamo operare per disattivarla: questo è l’imperativo che ci siamo dati, anche come rivista missionaria che tra l’altro promuove e sostiene dal 2000 – insieme a Mosaico di Pace e Nigrizia – la Campagna di pressione alle “banche armate”.

Ma concretamente cosa vuol dire per l’Italia?
È sempre più necessario chiedere, anzi pretendere, che le nazioni non formalmente in guerra, come il nostro Paese e tutti gli Stati membri dell’Ue, operino per un immediato “cessate il fuoco”, anziché alimentarlo, inviando armamenti. Ma è necessario anche continuare a mantenere l’attenzione sulla denuclearizzazione del mondo, secondo i trattati Onu sottoscritti dalla maggioranza degli Stati, ma disattesi dalle potenze che possiedono gli ordigni atomici. Una simile impostazione è alternativa all’invio di armamenti ai belligeranti e all’aumento della spesa militare ormai generalizzata.

Esistono margini per intervenire realmente in questo senso nell’attuazione del Pnrr?
Credo proprio di no. Il programma Next generatione EU, di cui il Pnrr è la versione italiana, è stato annacquato «per soddisfare varie lobby, trascurando sanità, istruzione, riassetto del territorio, risanamento dei suoli, moderazione dei consumi, per essere alla fine assorbito dall’aumento della spesa in armi», ha detto Viale mettendone in evidenza alcuni effetti paradossali.

Ad esempio?
Si è arrivati al paradosso che mentre l’Ue decide di mettere al bando la produzione – non certo la circolazione – delle automobili con propulsore a combustione a partire dal 2035, in Italia «viene fatta una eccezione per le auto di superlusso (quelle da 100mila euro in su)». Questo significa la permanenza delle enormi diseguaglianze che caratterizzano le società odierne, compresa quella italiana, e, soprattutto, esonerare la porzione più ricca della popolazione dal cooperare alla riduzione delle emissioni che alterano il clima. In questo senso appare evidente, citando Viale, per chi ha come orizzonte politico generale la conversione ecologica, che «la guerra in Ucraina fa parte della più generale guerra che una minoranza, ridotta ma potente, ha da tempo sferrato contro la Terra».

Con quali conseguenze sull’ambiente?
Dal modo in cui l’establishment dei nostri Paesi europei sta usando l’emergenza guerra per annullare le misure di contenimento della crisi climatica, possiamo purtroppo dedurre che non verrà rispettata la soglia massima dell’aumento di 1,5°C entro il 2035. Prepararsi ad affrontare l’unica vera emergenza, quella climatica e ambientale, da cui discendono tutte le altre, vuol dire promuovere fin d’ora un’economia che sovverta le caratteristiche principali di quella in cui siamo immersi. 

E quali sono i passi concreti di questa economia sovversiva?
Quelli coerenti con alcuni principi che per il momento mi limito ad elencare senza svilupparli: a) ormai la crescita del Pil non è più sostenibile; b) bisognerà cedere il campo alla deglobalizzazione, con un processo graduale c) ma anche produrre e riciclare all’interno di un territorio proprio; d) puntando ad un’economia di comunità partecipative; e) con una nuova governance, cioè governando non solo con tutte le maestranze e le loro rappresentanze, ma anche con le rappresentanze in cui si esprimono le esigenze del territorio; f) favorendo un’integrazione totale tra produzione e cura del territorio.

Esiste a suo parere una maggiore consapevolezza nella Chiesa circa la sfida epocale che stiamo affrontando?
La risposta a questa domanda non può prescindere da quale Chiesa abbiamo visto in azione durante la pandemia e durante la guerra. Le immagini che abbiamo sotto i nostri occhi, ci dicono che c’è stata una Chiesa dai diversi volti, come ha giustamente osservato don Bruno Bignami in chiusura del nostro convegno «paurosa da una parte, presente dall’altra. In mano a gestori del sacro autoreferenziali, quasi sacerdoti di un dio pagano; oppure rispettosa delle esigenze di tutela della salute dei più fragili. Perennemente in video o, invece, silenziosamente incarnata nei territori. Nella guerra sensibile solo a richiami nazionalistici o viceversa capace di solidarietà condividendo i beni a disposizione. Nel gelo ecumenico davanti a un patriarcato servile al potere, oppure attenta a tenere aperti tutti i canali diplomatici per una mediazione di pace».

Quali indicazioni si possono cogliere dentro tale contraddizione?
La Chiesa è chiamata a non ritirarsi dalla storia, ma ad abitarla, con le sue comunità, piccole e grandi, che devono attraversare il mare tempestoso della crisi attuale con una soggettività vitale e accogliente, non curandosi solo della propria sopravvivenza e della gestione interna. La Chiesa, come ci sta insegnando anche papa Francesco, con le sue parole e i suoi gesti, non deve più mirare ad una posizione egemonica, nemmeno nei Paesi di antica evangelizzazione, come l’Italia. Non è per caso che Francesco identifica la sua strategia con parole come “alleanza” o “coalizione”. Si veda per esempio il Discorso in occasione del conferimento del Premio Carlo Magno (6 maggio 2016). «C’è una Chiesa figlia della sua epoca e una Chiesa madre di una nuova stagione» ci ha detto don Bruno Bignami.

Per una maggiore consapevolezza da parte della Chiesa della crisi epocale che stiamo attraversando, abbiamo bisogno di una Chiesa che non si ripieghi su stessa, sulla “tradizione” con la “t” minuscola, come reperto storico, ma che riscopra la “Tradizione” con la “T” maiuscola, quella evangelica e apostolica, che lungo la storia l’ha resa capace di non perdere la sua carica profetica e missionaria, permettendole anzi una nuova ecclesiogenesi in grado di attraversare la crisi attuale.

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